Il cinema fu una delle grandi passioni di Henri Cartier-Bresson: il suo primo film risale al 1937, anno in cui girò Return to life, un documentario sulla guerra civile in Spagna. Del ’45 è invece Le retour, altro documentario sul ritorno dei prigionieri francesi provenienti dai campi di concentramento nazisti. Ma l’aspetto particolare delle attività cinematografiche del fotografo transalpino riguarda soprattutto il suo lavoro di assistente alla regia di uno dei maggiori cineasti francesi: Jean Renoir.
Cartier-Bresson è stato infatti in ben tre occasioni collaboratore dell’autore de La grande illusione: ne La vie est à nous (1936), il film di propaganda commissionato a Renoir dal Partito comunista francese, in Une partie de campagne (1936), mediometraggio tratto da una novella di Maupassant, e ne La règle du Jeu (1939), uno dei capolavori della cinematografia europea. In particolare, nel secondo e nel terzo film Cartier-Bresson sostenne anche due piccolissime parti. In Une partie de campagne è possibile vederlo nei panni di un giovane prete che passeggia in campagna, mentre ne La règle du jeu, la sua partecipazione è decisamente più significativa. Lo ritroviamo infatti nel ruolo del maggiordomo di uno degli invitati alla battuta di caccia organizzata dal marchese Robert La Chesnaye nella sua proprietà. Renoir regala all’amico-assistente addirittura alcune inquadrature specifiche, tra cui un piano ravvicinato, in cui dice alcune brevi battute (durante il pranzo del personale di servizio).
Anche Paul Strand, fotografo di cui si è vista recentemente una splendida personale al Museo della fotografia Alinari di Firenze, ha avuto un intenso rapporto con il mondo del cinema. Anzi, probabilmente, possiamo considerare Strand l’artista che più di ogni altro ha saputo alternare le due attività in questione.
Il suo primo cortometraggio risale addirittura al 1921: Mannahatta o New York the Magnificent. Ma gli anni venti rappresentarono il periodo del suo massimo impegno come operatore di ripresa, attività che svolse per majors come la Fox e la MGM.
Il 1934 segnò il suo definitivo lancio nel campo del cinema. In quell’anno infatti girò in collaborazione con Fred Zinneman e Emilio Gomez Muriel un documentario sullo sciopero dei pescatori messicani: Reti o I ribelli di Alvarado.
La passione per l’arte cinematografica lo portò a operare anche nel settore produttivo con la fondazione della Frontiers Film, casa di produzione con la quale girò il suo capolavoro: Native Land (1941), pellicola di fortissimo impegno politico, che affrontava un tema scottante come quello della discriminazione razziale.
Proprio a causa di Native Land, Paul Strand ebbe gravissimi problemi durante il periodo maccartista, al punto che fu costretto a lasciare il cinema per dedicarsi a tempo pieno alla fotografia. Uno dei fattori più interessanti della storia artistica di Strand è l’evidente omogeneità di linguaggio e di stile che contraddistingue i suoi film e le sue foto. In entrambi i casi il suo scopo era quello di rappresentare con fedeltà e precisione la realtà sociale contemporanea, utilizzando uno stile figurativo semplice, privo di manipolazioni ed effetti che non fossero quelli creati dalla luce del sole o dalle fonti di illuminazione diegetiche. Il suo, dunque, sia in cinema che in fotografia, è un linguaggio scarno, diretto e poetico, in quanto vero ed essenziale.
Nel 1949 durante un convegno internazionale di cineasti tenutosi a Perugia, Paul Strand incontrò Cesare Zavattini. I due strinsero subito una forte amicizia che li spinse a portare a termine un progetto di notevole interesse culturale: la realizzazione di un libro fotografico, pubblicato da Einaudi nel 1955, su Luzzara, il paese, in provincia di Reggio Emilia, in cui nacque il grande sceneggiatore italiano.
Brano tratto dall’articolo “I grandi fotografi e il cinema” – CineCritica n.2/3 aprile-settembre 1996. Per concessione del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani
CultFrame 07/2000
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