Una giovane attrice di cinema e teatro. Un’immigrata clandestina che cerca di sopravvivere come può. Una famiglia del Mali. Un ragazzino che aspira ad un vita diversa. Un fotoreporter che documenta con il suo lavoro l’atrocità della guerra. Schegge esistenziali lanciate nello spazio-tempo, immagini dinamiche bloccate in un racconto-mosaico sul dolore di vivere. Sullo sfondo Parigi, le sue strade, le sue case, i palazzi, la metropolitana, le gente. Persone che si affannano, che cercano di tirare avanti come possono.
Il film di Michael Haneke Storie racconta tutto ciò in modo diretto e stilisticamente sporco. Non c’è una vera struttura narrativa, non c’è un’esposizione logica delle sequenze. Ogni scena è chiusa da un quadro nero e si interrompe improvvisamente, nel bel mezzo di un dialogo, o mentre la macchina da presa si sta muovendo. Quella costruita da Haneke è un’antistruttura di stampo godardiano basata su flash visivi, su frammenti di umanità, porzioni di realtà ritagliate e riproposte secondo schemi armoniosamente caotici.
Frame che nascono dal nulla e si smaterializzano; volti che si manifestano e scompaiono senza lasciare traccia. Storie è un film di istantanee, basato su una narrazione pensata come un susseguirsi di polaroid che sezionano il mondo e lo ripresentano in maniera scomposta e magmatica. Scorrono davanti agli occhi dello spettatore eventi che si incrociano e si sfiorano. Per il fruitore è come passare da una fotografia all’altra. Haneke ci obbliga, dunque, ad una visione segmentata e ci costringe ad operare attivamente per collegare ogni elemento in un discorso unitario, esattamente come deve fare il visitatore di una mostra.
Cinema e fotografia si intrecciano indissolubilmente in questo lungometraggio; si inseguono; si sovrappongono formando un tessuto iconografico estremamente complesso. Quando uno dei protagonisti entra nel metrò con la macchina da presa al collo per riprendere i volti di alcuni sconosciuti si verifica una sorta di effetto di raddoppiamento: fotografie che si trasformano in fotogrammi, inquadrature che si intersecano, facce che si sostituiscono ad altra facce, sguardi persi nel vuoto che si ricollegano ad altri sguardi persi nel vuoto.
Gli scatti in bianco e nero utilizzati in Storie sono il risultato del talento di Luc Delahaye, corrispondente di guerra che qualche anno fa realizzò un lavoro di documentazione sul popolo della metropolitana di Parigi. L’idea di utilizzare delle immagini fisse fu suggerita ad Haneke dal fotografo-cineasta Raymond Depardon che indirizzò poi il regista verso il giovane membro dell’Agenzia Magnum.
Ma in Storie si vedono anche alcuni lavori tratti dei servizi che l’artista francese ha realizzato in Kosovo, una sorta di improvvisa virata che devia il racconto verso la rappresentazione della follia della guerra e determina una significativa stasi nel flusso sconnesso delle vicende.
In questa pellicola, un filo sottile mette in comunicazione lo sguardo del regista Michael Haneke, con quelli dell’attore che interpreta il ruolo del fotoreporter, di Luc Delahaye e dello spettatore. E proprio a quest’ultimo, in questo ossessivo gioco di scatole cinesi visive e di rimandi labirintici, è dato il compito di rintracciare il senso profondo di questo lungometraggio.
La vita sembra essere solo un vortice di visioni sfocate e di passaggi fugaci. Dietro tutto ciò, il nulla e l’angoscioso dibattersi degli esseri umani alla disperata ricerca di un segno che renda comprensibile la realtà.
© CultFrame 04/2001
CREDITI
Film: Storie / Titolo originale: Code inconnu / Regia: Michael Haneke / Sceneggiatura: Michael Haneke / Fotografia: Jurgens Jurgens / Montaggio: Andreas Prochaska, Karin Hartusch, Nadine Muse / Foto di guerra e del metrò: Luc Delahaye / Interpreti: Jiuliette Binoche, Thierry Neuvic, Alexander Hamidi, Sep Bierblicher / Paese: Francia, 2000 / Durata: 117 minuti