E’ il 2 febbraio 1932. Il comandante di Auschwitz, Rudolf Hoess, diffonde un ordine categorico: “E’ proibito fotografare nei dintorni del campo. Punirò severamente coloro che disobbediranno a questo ordine”.
Eppure, alla fine della guerra, nel lager sono state trovate quarantamila fotografie. Più di un milione e mezzo sarebbe invece il numero complessivo di scatti conservate in 30 archivi di tutto il mondo.
Intorno all’industria della morte ci fu una vera e propria organizzazione di fotografi, laboratori e studi tecnici. Milioni di stampe sono state prodotte per scopi burocratici, per usi scientifici e di propaganda nonché per giustificare le operazioni di sterminio. E’ stato proprio l’orgoglio nazista, il “narcisismo burocratico” del regime, a spingere l’amministrazione dei campi a registrare ogni cosa. Così, nonostante il tentativo degli artefici dell’orrore di cancellare qualsiasi testimonianza, le fotografie salvate dai prigionieri sono oggi una prova visiva inequivocabile della freddezza nei confronti della morte e del disprezzo per la vita che ostentavano ossessivamente i gerarchi dal nazismo.
Durante la guerra, nel cosiddetto museo dei deportati di Dachau ai visitatori era offerto un repertorio di immagini raccolte in album pregiati, con la copertina in cuoio, accompagnate da annotazioni scritte con una calligrafia impeccabile ed elegante. Sfogliare l’album era un momento atteso, di grande privilegio. Questi terribili “lavori”, presentati in perfetto ordine, cercavano di trasmettere equilibrio e armonia ed esaltavano il campo come luogo di rieducazione. Le foto segnaletiche, invece, spersonalizzate, standardizzate e numerate, servivano per determinare l’ordine gerarchico del campo; quelle realizzate ai malati mentali prima della loro esecuzione giustificavano “l’eutanasia”, mentre altre scattate ai detenuti in cerca della loro libertà “spiegavano” la loro morte “accidentale”. Alcune riproduzioni sono state invece utilizzate per lo studio “scientifico” della razza e per la documentazione degli esperimenti medici.
Corpi martoriati, sguardi terrorizzati e increduli, cumuli di oggetti, tute a righe, rotaie che portano nel nulla, l’ingresso ad Auschwitz, il filo spinato, torri d’osservazione, sono solo alcune delle elementi-simbolo della tragedia della Shoah.
Ma gli studiosi hanno lanciato un allarme: queste raffigurazioni seriali, dai contenuti scioccanti, se decontestualizzate, rischiano di diventare opere “ad effetto”, spettacolari. Per questo motivo perderebbero il loro valore storico. Spesso sfocate e prive di dati precisi sulla loro provenienza, potrebbero finire per creare confusione. In alcuni casi le riprese effettuate dalla propaganda nazista non sono, ad esempio, associate a indispensabili didascalie esplicative mentre quelle effettuate durante la liberazione sono spesso presentate come semplici rappresentazioni di vita quotidiana. Certe immagini, dunque, potrebbero apparire patetiche e retoriche, deviando in tal modo le coscienze.
Una tecnica interpretativa già pienamente e sciaguratamente utilizzata dai negazionisti dell’orrore nazista.
A mettere sotto accusa la superficialità dello sguardo e ad esplorare il delicato universo della rappresentazione della Shoah è il libro Mémoire des camps – photographies des camps de concentration et d’extermination nazis (1933-1999) pubblicato in Francia da Marval in occasione della mostra organizzata a Parigi dal Patrimoine photographique. L’importante volume avanza delle critiche nei confronti della campagna di riproduzione iconografica, attuata senza particolari attenzioni. Moltiplicate all’infinito, le fotografie sono prive di informazioni che consentano di fornire al documento visivo autenticità storica.
Inoltre, il calo di qualità e l’appiattimento della gamma dei grigi, ha eliminato dettagli estremamente significativi, in parte tornati alla luce dopo un meticoloso lavoro effettuato da ricercatori mondiali.
Sono centinaia i contributi pubblicati nel libro. Tra i molti scatti vi sono quelli di Lee Miller, Margaret Bourke-White, George Rodger, Eric Schwab, Germaine Krull e Erwin Blumenfeld, tutti professionisti capaci di confrontarsi lucidamente con le emozioni suscitate dalla visione iterata del dolore e della morte. Risultano più credibili, però, le immagini amatoriali realizzate clandestinamente, nonostante il divieto, da visitatori coraggiosi e dai detenuti stessi, spesso in condizioni estremamente pericolose. Così, proprio le inquadrature “sbagliate”, non nitide e disordinate a livello compositivo, riescono, forse meglio di tutte le altre, a trasmettere chiaramente la dimensione reale della sofferenza fisica e psicologica dei prigionieri.
CultFrame 07/2001
IMMAGINI
1 Erwin Blumenfeld. Pendsando ai campi di concentramento. Autoritratto. Coll. Stedeljik Museum, Amsterdam. Dal libro Mémoires des camps
2 fotografo non identificato. Cremazione dei corpi dei detenuti. Birkenau, 1944. Coll. Musée d’Etat d’Auschwitz-Birkenau. Dal libro Mémoires des camps
CREDITI
Mémoire des camps – photographies des camps de concentration et d’extermination nazis (1933-1999) / Autore: Clément Chéroux / Editore: Marval, 2001 / 246 pagine / Editore italiano: Contrasto / Titolo: Memoria dei campi / ISBN: 88-86982-46-1
LINK
CULTFRAME. I fantasmi del tempo, i luoghi della memoria. Incontro con Shimon Attie