La sua mostra a Roma è stata l’occasione per questo incontro con Graciela Iturbide, la fotografa messicana, allieva di Álvarez Bravo, che da anni racconta il mondo attraverso il proprio sguardo raffinato e senziente.
Può raccontarci il suo incontro con Manuel Álvarez Bravo?
Cominciai a studiare tardi, perché mi ero sposata molto giovane; quando decisi di iscrivermi in Cinematografia, nel ’69, avevo già tre bambini piccoli. Ebbi in questo modo la fortuna di conoscere Manuel Álvarez Bravo che lì dava lezioni di fotografia, anche se nessuno le frequentava, perché tutti volevano diventare registi. Gli chiesi se potevo seguire le sue lezioni ed egli mi rispose che, se lo desideravo, potevo anche andare in giro con lui a fotografare; divenni così sua assistente per circa un paio d’anni.
Lasciai poi la Cinematografia e il lavoro con Álvarez Bravo, che però mi é stato sempre molto vicino; è la persona da cui penso di aver imparato di più nella vita: molto colto, fine, intelligente, con un senso della vita molto poetico… messicano, con molto tempo per ogni cosa, innamorato dell’arte popolare, della cultura e della musica. Per me fu veramente un privilegio stargli accanto.
Nel suo lavoro si sente vicina ad Álvarez Bravo o ad altri maestri?
Ho sempre cercato di mantenere un mio linguaggio personale, anche se è importante accogliere molte influenze nella vita e molti sono i fotografi che mi hanno affascinato, come Alvarez Bravo, Tina Modotti, Robert Frank, Giacomelli… Adoro Giacomelli e avrei tanto voluto conoscerlo: ha una sensibilità ed una poesia molto speciale. Le sue sono immagini non intellettuali, ma fortemente emotive. E vedendo i suoi paesaggi, sento che è un artista molto libero.
Da Álvarez Bravo ho imparato ad amare il mio paese e grazie a quest’amore, ho continuato a viaggiare per il Messico, trovandomi a lavorare su invito del pittore Francisco Toledo (che lì era nato) anche a Juchitan dove era stata Tina Modotti: Juchitan è un villagio “mitico” nella regione di Teuantepec, che fra gli altri studiarono Diego Ribera e Frida Kahlo. Avevo conosciuto il lavoro di Tina Modotti nel ’69 da Álvarez Bravo, che le era stato molto amico, e mi era piaciuto molto; ma noi fotografi, pur apprezzando l’altrui lavoro, dobbiamo sempre cercare un nostro cammino personale.
Così, quando lavoravo con Alvarez Bravo, non scattavo mai foto. C’era un rispetto per il maestro. Stavo a guardare: come lavorava, come posizionava la sua macchina, come aspettava che qualcosa accadesse o che qualcuno passasse. Mi piaceva molto come lavorava: il suo senso poetico del tempo era così messicano. Il suo lavoro è universale, ma mi piace perché è al tempo stesso molto messicano: nella sua opera ha rielaborato, a suo modo, tutta la cultura messicana, dall’arte preispanica fino ai muralisti.
Ma cos’è questo senso del tempo messicano?
Ora è cambiato un po’ per via della globalizzazione, ma se si va nelle zone indigene, è ancora come se ci fosse tempo per ogni cosa: per il paesaggio, per le leggende, per i racconti dei nonni ai bambini, per arare i campi, per tutto. E’ legato ai cicli della luna e della natura. Ci sono molte leggende in proposito.
Nel laboratorio di Álvarez Bravo c’era un cartello che diceva: “C’è tempo.. C’è tempo”. Questo m’impressionò molto: lui non aveva fretta di fotografare, metteva la sua macchina e aspettava. Non aveva fretta neanche per la fama, diceva che tutto arriva da solo. Un uomo molto saggio, per questo mi piacque tanto lavorare con lui.
Pare anche affermasse che la tecnica non è poi così importante, lei che ne pensa?
Come nel fare un pastello o cucinare un piatto, ci vuole la tecnica ma anche il sentimento.
E’ importante la tecnica, ma lo è molto di più quel che c’è dietro la macchina: l’occhio (se non ce l’hai, la tecnica può essere perfetta , il lavoro appare però freddo); ed è fondamentale quel che c’è dentro la persona che sta scattando la fotografia: il tipo di cultura, di emozioni, i suoi riferimenti nel mondo.
Si può avere una tecnica cattiva con una buona fotografia (che ti emozioni!) e anche una fotografia tecnicamente perfetta che non dice nulla. E’ chiaro, se una fotografia che ti emoziona può essere ben esposta è meglio, però c’è gente che espone bene, fa tutto correttamente, ma dovrebbe imparare a vedere.
Considera la casualità, l’incontro con qualcosa d’inatteso, un elemento importante nelle sue immagini?
Per me la casualità è molto importante: puoi uscire da qui e incontrare meraviglie! Devi avere, come diceva Cartier-Bresson, “occhio di lince e mano di seta”. Ci sono molte cose che a volte uno non vede. Io, ad esempio, non avevo notato i cani randagi della foto qui esposta, scattata in India; me li indicò mio figlio Mauricio e ne rimasi tanto sorpresa. Mi piace molto la sorpresa nella fotografia. Quando non mi sorprenderò più, penso, non potrò più essere fotografa. Senza l’emozione e la sorpresa, finisce tutto.
Hanno influito su di lei il Surrealismo e il cinema di Buñuel con i suoi film messicani?
Amo Buñuel e mi piacciono i suoi film. Penso però che quando André Breton venne in Messico e disse che è surreale, espresse il parere di un francese.. un po’ colonialista, secondo me; l’idea di uno che viene e dice il Messico è come lo voglio io.
Mi piacerebbe che gli spettatori, guardando il mio lavoro o quello di Buñuel, notassero qualcos’altro. Molta gente ha detto che il mio lavoro è surreale, ma io non so: forse qualche mia immagine può avere un che di surreale, però non ho mai cercato quest’effetto coscientemente.
Il Messico è un paese molto complesso. Lo amo molto. Ha una parte marginale che è meravigliosa, ma che ha sofferto molto per questa marginalità: la zona indigena ha una cultura fantastica, che in alcuni casi non si è persa. E’ un paese molto strano, però, dove la modernità convive con la purezza e con una cultura millenaria. E’ molto ricco culturalmente e continua ad avere una gente meravigliosa, ma la corruzione dilaga oggi, e noi messicani dobbiamo stare attenti, perché è molto triste ciò che sta adesso accadendo.
Qual è il filo conduttore dei suoi lavori?
Credo che sono io. Io fotografa, che innanzi tutto m’interesso del mio paese, desidero conoscerlo per mezzo della macchina fotografica. Mentre fotografo, parlo molto con la gente.
Prima mi sono avvicinata molto a coloro che ritraevo ho addirittura convissuto con loro, poi mi sono allontanata un po’. Per riflettere forse. Sono andata negli Stati Uniti, che era un altro mondo; per me rappresenta la solitudine: non c’è gente per strada. Ho tuttavia continuato a far entrare l’uomo nelle mie inquadrature, come in Messico. In India, invece, dove c’è molta gente, non so perché, ho fotografato molti paesaggi.
Quando uno fotografa è se stesso. E’ tutto molto inconscio in me. All’inizio fotografavo gli uccelli senza sapere perché. Ci sono però molte opere su di loro, e c’è un libro, “Il verso degli uccelli”, di un poeta sufi che si chiama Attar, nel quale si narra del mitico Simurg (anche Borges ne parla), un uccello che vive in cielo. In quest’opera poetica si narra come, riunitisi in assemblea, tutti gli uccelli lo volessero cercare, ma solo trenta di loro si mettono in viaggio e, dopo molte peripezie, lo incontrano. E’ molto bello perché scoprono che il Simurg sono loro, è il loro specchio.
Gli uccelli sono dunque il simbolo del volo che ognuno deve fare, ed io li rappresento in questa maniera reale, perché non sono scrittrice. La fotografia è comunque un’interpretazione, non è affatto oggettiva; è del tutto soggettiva: è come una persona interpreta il mondo a modo proprio.
E’ dunque proprio lo “sguardo di Graciela Iturbide” quello che vediamo in questa mostra?
Ho fatto lavori che sono molto diversi da quelli esposti; lavori in un certo senso “morbosi”. Per esempio, quello su di una mattanza di capre, che s’intitola “En el nombre del Padre”, perché gli indios quando ammazzano le loro caprette, si fanno il segno della croce. Un piccolo libro molto “conflittuale”: la gente vedendolo resta inorridita; a me però piace: parla di una tradizione messicana, che trovo molto “biblica”, ecco perché l’ho fatto. Quando c’è sangue in un rituale è una cosa molto erotica. Mi piace il sangue e il pericolo; ho scattato molte immagini di morte in India. Mi piace fotografare tutto. Perché noi siamo tutto questo: anche la morte. La forza e la dolcezza, la tranquillità e la passione: non siamo soltanto morte né soltanto poesia, siamo tutto.
©CultFrame 06/2002
IMMAGINI
1 Graciela Iturbide. ©Orith Youdovich
2 Graicela Iturbide. Girasoli, 2001
3 Graciela Iturbide. Uccelli, Tampa, Florida, 1997