Giacomelli ⋅ Maestri della fotografia

SCRITTO DA
Andrea L. Casiraghi
Ninna Nanna, fotografia di Mario Giacomelli in Maestri della fotografia
Mario Giacomelli. Ninna Nanna, 1985/87. ©Eredi Mario Giacomelli. Da Opere fotografiche 1953-2000, Palaexpo Roma

Mario Giacomelli. 1925 (Senigallia) – 2000 (Senigallia)

Giacomelli ha messo in piedi una visione personalissima di un lontano e mitico mondo rurale. Un viaggio ancestrale ed evocativo in luoghi perduti nella nostra memoria, una fotografia di meditazione ed estemporanea allo stesso tempo.

Fu sempre grande la sua attenzione nei confronti del paesaggio. Ben presto esso divenne lo spazio del pensiero ed il luogo della meditazione. Il suo modo di fare fotografia non era poesia, non era nemmeno un semplice esercizio stilistico, era solo il mezzo attraverso il quale trovare quei luoghi nei quali era possibile sviluppare l’immaginazione ed il pensiero… luoghi reali e vivi, ripresi nel modo più diretto possibile.
Rivedere le sue fotografie è inoltrarsi lungo una strada fatta di emozioni, di ricordi, di momenti dell’autore. Una vita intera attraverso la fotografia, attraverso l’angoscia, la paura… attraverso quella morte che distrugge tutto, l’uomo, le sue carni, la sua mente. Giacomelli sembra ripescare angosce antiche, cancri della mente, le paure di un bambino costretto a stare con la madre in un luogo di figure oscure e terrificanti come solo i vecchi dell’ospizio potevano apparire agli occhi di un bimbo di pochi anni. Giacomelli rivisse quei suoi traumi infantili e lo fece con la suggestione fotografica diretta e semplice, violentando il mondo esterno, corrompendolo con la propria psiche.

Nel viaggio verso la riscoperta della terra, come un piccolo uomo alla riscoperta dell’umanità, Mario Giacomelli diede il massimo della sua capacità di narrazione evocativa, regalando allo spettatore un mondo ricco di vita, sempre minacciato dalla presenza della morte, una morte palpabile ed unica nel suo genere visivo, una morte naturale e immaginaria che venne raffigurata nella rappresentazione di alberi vecchi, morti, antichi come antichi erano quegli anziani dell’ospizio di Senigallia. Fu da questo luogo, pensandoci, che sembra siano nate le sue paure e le sue incertezze, nei ricordi di un’infanzia trascorsa in quella prigione popolata da ombre nere ed enormi, dai volti contorti e deformi contagiati dal germe raro della follia. Impressioni di morte che trasmise, crescendo, in ogni sua immagine, in ogni suo lavoro, persino in quelle fotografie che sono da considerare come le più belle e significative dell’esperienza neorealista italiana.

La grande luna, fotografia di Mario Giacomelli in Maestri della fotografia

Mario Giacomelli. La Grande Luna, 1980. ©Eredi Mario Giacomelli. Da Opere fotografiche 1953-2000, Palaexpo Roma

Le immagini e le fotografie di Giacomelli rappresentarono uno specchio su delle realtà prima di tutto interiori, poi umane e, in terzo luogo, sociali. Ma quest’ultimo punto è quello che ha meno importanza, quello più leggero. Cercare di trovare un impegno sociologico o d’indagine nelle immagini del fotografo di Senigallia, sarebbe come intraprendere una strada sbagliata, un sentiero morto, non capire nulla di quello che ci ha lasciato, di quello che ha composto. Il realismo di Giacomelli è stato un realismo evocativo, una leggera poesia scritta sulla realtà, un momento di meditazione, di costruzione mentale, di sogno e immaginazione.

Le fotografie appaiono proprio come sogni, surreali momenti interiori che dalla realtà traggono solo l’estetica narrativa, ma che nella realizzazione, nella presentazione al pubblico, nello stile, nella tecnica sono finestre sull’io del fotografo.

Così è in gran parte della sua produzione, una produzione segnata dalla ricerca costante di spazi visivi nei quali sfogare le proprie paure e incertezze, i propri incubi. Le fotografie hanno uno stile secco, dai forti contrasti, dove immagini scure di persone, come ombre e fantasmi sembrano stagliarsi in un ambiente chiaro e morbido, in un presente reale e statico, immobile. I tipi umani di Giacomelli sembrano fluttuare nella realtà come le sensazioni del fotografo. Sembrano poste sul confine sottile che divide il racconto ideale dalla realtà.

La fotografia di Giacomelli fu una narrazione costante, non creò semplici immagini, creò racconti, storie di vita, di una vita reale interpretata all’interno di schemi psicologici ben precisi. Questi erano: la poesia, l’amore, la paura, i ricordi dell’infanzia, la sensibilità per un’estetica fotografica fatta di meditazione, di stasi, di una quiete che in certi momenti sembrava angoscia, sembrava la trasposizione di sentimenti forti come la vita e la morte, la solitudine.

Poi in campagna ritrovò un santuario della stasi meditativa, nella terra il bisogno di documentare il rapporto stretto che legava l’uomo alla natura, il contadino ai suoi campi e al lavoro, alla fatica. Immancabilmente emerse anche in queste immagini la forza della vita, un richiamo alle leggi naturali, a quei miti che ruotavano intorno alla terra, alle sue colture, ai suoi luoghi fatti di silenzio e ombre, di alberi lontani, vivi o morti, di un continuo brulicare di lavoratori, di donne e di uomini, di bambini.

Sostiene con efficacia Mauro Corradini: “Giacomelli non legge la realtà per darci un canto della terra; pur nell’attenzione ai nuovi modelli, più attenti alla natura ed al territorio, pur nell’attenzione ai ritmi ambientali dei nostri anni, per il fotografo non viene meno quella lettura poetica che vede nel dissidio il contrasto fondamentale che domina il mondo: l’uomo, infatti, è il movente e l’episodio essenziale di una terra che non voglia essere né il bel panorama, né una natura incontaminata e lontana, di più sfibrante sensibilità tardoromantica: per Giacomelli la terra è il luogo contraddittorio, tra speranze e inquietudini, è la quintessenza di un dissidio, che è la vita stessa dell’uomo, la sua millenaria storia, che il volto della terra conserva, il fotografo ricerca e lascia intravedere…”

Tra il 1957 e il 1959 Mario Giacomelli realizzava il racconto su Scanno, “…un paese di favola, di gente semplice, dove per la via principale trovi le mucche, le galline, anche persone… E’ bello anche il contrasto tra le strade bianche e il contrasto di donne e di uomini con mantelli scuri” come osserva Ennery Taramelli in Viaggio nell’Italia del Neorealismo.

Scanno, piccolo paese dell’Abruzzo, fu il soggetto di un lungo reportage, probabilmente uno dei più significativi della storia del neorealismo italiano. Insiste la Taramelli: “Multidimensionale e plurifocale, questa narrazione per immagini pare richiamare i modi specifici della figurazione dell’imagerie popolare. Quella delle icone, degli ex-voto, delle illustrazioni dei calendari e degli almanacchi e di tutti gli epigoni del meraviglioso attinto al codice dei gesti della narrazione popolare”.

Lourdes, fotografia di Mario Giacomelli in Maestri della fotografia

Mario Giacomelli. Lourdes, 1957/59. ©Eredi Mario Giacomelli. Da Opere fotografiche 1953-2000, Palaexpo Roma

Tecnicamente il lavoro si presenta come una registrazione di attimi rubati alla vita comune del paese. Giacomelli espresse al massimo il suo poco considerare l’inquadratura, la messa a fuoco, la perfezione tecnica di ripresa. Si concentrò sulla realtà, sulla gente, sulla campagna, sul lavoro. Diede vita a delle foto probabilmente lontane dalla purezza estetica ma cariche di un senso del reale e della vita raro nei fotografi a lui contemporanei. Anche in quell’esperienza apparve chiaro che la poetica del fotografo si mosse su linee ideali ben precise. Rinunciando all’estetica Giacomelli presentò quelle immagini come il frutto del suo spirito e come la rappresentazione intima delle sue sensazioni ed emozioni.

In queste immagini la fotografia si spoglia del suo essere documentazione diventando elemento di riflessione, il concepimento di una realtà interiore o di una realtà esterna filtrata dalla sensibilità dell’autore. Le figure cessano di essere persone diventando fantasmi. Sembrano aggirarsi lentamente in un ambiente surreale, sembrano vivere in una realtà che non è realtà ma costruzione mentale dell’io del fotografo. Quelle figure solitarie sembrano ricordare le suggestioni di quella morte lenta presente nell’ospizio di Senigallia. Sembrano quei vecchi che usciti da quella prigione si aggirano silenziosi per le strade del paese, come se volessero seguire il fotografo, perseguitarlo, diventarne il soggetto primo di ogni sua immagine. Angoscia, senso di morte, oscurità psicologica, purezza. Tutti elementi che coincidono con le foto di Scanno e di quelle foto ne diventano l’ossatura, la testimonianza concreta di un bisogno di fotografare per esorcizzare prima di tutto le proprie paure, i propri ricordi e, poi, per documentare.

Scanno è stato un non-documento del Mezzogiorno, è stata la visione di un uomo e lo sfogo di un bambino scosso nella mente dai ricordi di figure scure e oscure. Ha rappresentato un intimo inno alla solitudine esistenziale.

Tristemente assorti nel loro peregrinare le scure figure vagano per quelle immagini, sono nerissime in un ambiente dai grigi chiari, dai bianchi purissimi. Lo sguardo perso verso remoti ed ipotetici stati dell’anima: i soggetti di quelle foto sembrano statue riprese in pose surreali, non indicative da un punto di vista socio-ambientale ma profondamente simboliche da un punto di vista mentale. È un altro Mezzogiorno quello di Giacomelli, un’altra e importante visione del Meridione, un Sud strano, una fiaba popolare, una raffigurazione poetica di luoghi depressi, di gente povera, di una folla di persone composta da uomini e bestie, da contadini e zingari, da vecchi e bambini.

Nelle fotografie di Scanno ognuno può poi vederci ciò che vuole, può anche usarle per un’analisi ambientale dei luoghi, ma, resta il fatto, che Mario Giacomelli è riuscito a forgiare una visione tutta particolare su quel Mezzogiorno. Il suo è, senza dubbio, un quadro profondamente realista, ma che del realismo usa solo l’estetica, approssimativa per altro. Un’estetica che appare esasperata, costruita sulla totale casualità dei fatti, sulla ripresa non pensata e sulla registrazione cruda e veloce di quello che appariva davanti all’ottica. Per il resto è l’interiorità dell’autore a far da padrona a Scanno (ed in tutti gli altri suoi lavori), a diventare la protagonista di quelle fotografie, di quelle situazioni.

BIOGRAFIA

Mario Giacomelli in Maestri della fotografia

Mario Giacomelli è stato uno degli autori italiani più conosciuti nel campo della fotografia. Nel 1954 si avvicinò da amatore al mondo della rappresentazione fotografica e, dopo aver conosciuto Giuseppe Cavalli, entrò a far parte del gruppo Misa assieme a Piergiorgio Branzi, Vincenzo Balocchi, Alfredo Camisa, Paolo Bocci, Ferruccio Ferroni ed altri.

Legato all’interesse e all’esperienza precedente nel campo della pittura e della poesia, la sua fotografia è stata quasi sempre una riflessione sui temi della vita e della morte, della solitudine, della vecchiaia, dei giovani, del mondo contadino e del paesaggio, in modo particolare del suo paesaggio, quello delle Marche.

Nel 1955 iniziò a lavorare alla raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi frequentando gli ospizi di Senigallia. È indubbiamente uno dei lavori più interessanti di Giacomelli, ricco di contrasti e di visioni, di situazioni angosciose, di un senso estetico della morte non trovabile in altre opere di fotografi a lui contemporanei. Giacomelli fotografò la vita che finiva, che si estingueva lenta nella solitudine, nella tristezza, nella pietà; in luoghi bui e cupi, in prigioni che escludevano il vecchio dal mondo, che lo lasciavano perso tra le ombre di se stesso, in un ambiente da incubo, un luogo popolato dai fantasmi di persone vive ma che nei loro occhi sembrava arrivare lenta la fine, bagnata, inesorabilmente, da gocce di follia. Il lavoro negli ospizi fu un lento peregrinare nella memoria o forse un’esigenza di ritrovare le atmosfere dell’infanzia. Diceva di quei suoi lavori: “…volevo rendere quello che avevo dentro di me: la paura d’invecchiare, non di morire, il disgusto per il prezzo da pagare alla vita”. L’esperienza durò fino al 1968.

Contemporaneamente affrontò il tema del paesaggio rurale con Terra (1955-1968) e Natura morta (1955-1956). Del 1957 fu la raccolta “Lourdes”; degli anni 1957-1959 uno dei suoi lavori più celebri Scanno; del 1958 Puglia e Zingari.

Negli anni seguenti la ricerca si concentrò sul paesaggio che la memoria trasformava, sotto i segni del lavoro dell’uomo, in una dolorosa confessione autobiografica. Scrive Arturo Carlo Quintavalle: “L’intera fotografia di Giocomelli si può leggere come autoanalisi e se si dovesse indicare per essa una valenza questa pare essere l’angoscia e la pulsione di morte unita insieme ad un mitico sogno, quello della memoria che, come ogni ricordo, è amore”.

Nel 1960 lavorò ad Un uomo, una donna, un amore; nel 1961 a Mattatoio; nel 1962-1963 lavorò a Io non ho mani che mi accarezzino il viso, conosciuta anche come Pretini. Del biennio 1964-1965 fu la serie La buona terra, mentre del triennio 1971-72-73 fu Spoon River Anthology, ispirata alla poetica di Edgar Lee Master. Nel 1974 si recò in Etiopia, dove realizzò la raccolta Perché, mentre continua, fino agli anni ’80, a fotografare paesaggi.

Ispirato alla poetica di Vincenzo Cardarelli fu infine I racconti, ultima sua fatica, del 1990.
Morì a Senigallia il 25 novembre 2000.

© CultFrame 10/2002

BIBLIOGRAFIA
– Guerra, S., Parlami di lui – Le voci di Scianna, Berengo Gardin, Ferroni, Camisa, Colombo, Branzi, Manfroi, De Biasi, Permunian, Biagetti, su Mario Giacomelli, Mediateca delle Marche, Ancona, 2007
– Celant, G., Mario Giacomelli, Photology, Milano, 2001
– Giacomelli, M., Giacomelli: la forma dentro, fotografie, 1952-1995, Charta, Milano, 1995
– Giacomelli, M., Omaggio a Spoon River, Federico Motta Editore, Milano, 1994
– Carli, E., Fotografia, Adriatica Editrice, Ancona, 1990
– Carli, E., Il reale immaginario di Mario Giacomelli, Il lavoro editoriale, Ancona/Bologna, 1988
– Quintavalle, A.C., Mario Giacomelli, Feltrinelli, Milano, 1980

SUL WEB
Mario Giacomelli e il gruppo MISA

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