Cosa mostra al fruitore l’immagine prodotta attraverso l’uso del dispositivo ottico? Esiste una sostanza concreta di oggettività nella porzione di realtà catturata da una macchina da presa e/o fotografica? Le immagini non sono forse proiezioni dei nostri sogni e dei nostri incubi?
Intorno a queste domande ruota l’operazione concettuale messa in atto da Brian De Palma nel suo ultimo lavoro intitolato Femme fatale.
Un fotografo, una donna dall’identità multipla e sfuggente, una vicenda priva di elementi certi ed incontrovertibili. Si tratta di un “delirio” narrativo supportato da un’elaborazione teorica in verità molto chiara.
Uno dei personaggi principali, interpretato da Antonio Banderas, è un professionista della fotografia, un “paparazzo” in difficoltà economiche che cerca di cambiare la sua vita grazie ad uno scoop clamoroso. Questo individuo perdente, e praticamente inetto, crede di poter fermare il reale, e di poterlo svelare agli altri, grazie proprio all’uso strumentale del mezzo fotografico. Ma così non è. Sì, perché è un fotografo incapace di vedere, un voyeur, forse represso sessualmente, non in grado di decifrare il visibile, poiché quest’ultimo fattore, trasportato all’interno delle immagini da lui realizzate, non è altro che un flusso di luce e di forme cangianti, un eco del mondo popolato da ectoplasmi imprendibili.
Secondo Brian De Palma, dunque, il fotografo (ma anche il regista di cinema evidentemente) pensa di avere a che fare con una sorta di oggettività analizzabile ma finisce invece per confrontarsi inconsciamente con le proprie angosce, con i propri desideri erotici più intimi e con la paura del nulla. L’immagine, infatti, non riesce a fornire coordinate sicure, anzi complica ancora di più la situazione mentale dell’individuo guardante il quale si ritrova all’interno di un vero e proprio labirinto in cui il dejà-vu, il riflesso, l’ombra, il raddoppiamento, le sfocature, lo sfasamento dell’interpretazione, l’iterazione assurda delle situazioni diventano elementi che provocano un’ubriacatura dei sensi, una perdita definitiva di equilibrio.
Di tutto ciò si parla in Femme Fatale, film eccessivo e per certi versi assurdo, spinto fino all’inverosimile verso il buco nero dello spazio-tempo sospeso.
De Palma, destrutturando i codici linguistici, distruggendo la compattezza unitaria dell’inquadratura e proponendo diversi punti di vista contemporaneamente, smaschera la presunzione che spinge molti artisti a tentare di bloccare la realtà nella riproduzione visuale, evidenziando in questo modo la fragilità delle sovrastrutture inventate dagli esseri umani per dare una direzione precisa all’esistenza.
Chiunque pensi, dunque, di governare razionalmente i propri fantasmi attraverso attività creative come la fotografia e il cinema non fa altro che brancolare disperatamente nel buio accecante del non senso assoluto, spinto dallo smarrimento mentale e dall’insopprimibile tensione provocata dal desiderio erotico che determina l’annullamento di sé in un piacere fisico, ma anche visivo, che è sempre una piccola morte metaforica. Per esorcizzare il vuoto e l’orrore di non esserci.
©CultFrame 11/2002
CREDITI
Femme Fatale / Regia: Brian De Palma / Sceneggiatura: Brian De Palma / Montaggio: Bill Pankow / Interpreti: Antonio Banderas, Rebecca Romijn-Stamos, Jean Reno, Gregg Henry / Distribuzione: Warner Bros. / Paese: USA, 2002 / Durata: 110 minuti
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