In occasione della sua mostra, To see in the dark, Cultframe ha incontrato l’artista nel suo studio di Roma. Ne è nato un confronto sul senso dell’esperienza creativa e sul rapporto tra l’individuo e la realtà.
Vuoi spiegare il senso di questa tua esperienza creativa?
Per me questa mostra è stata una scommessa. La scommessa è muoversi con rigore e libertà nel campo artistico, saltando gallerie private e giochi di potere. Voglio fare l’artista come uno scienziato. Scoprire qualcosa di nuovo, avere un’intuizione e cominciare a lavorare. Poi. vorrei realizzare degli esperimenti che provino all’esterno quello che è accaduto dentro di me.
Ho lavorato quasi dieci anni di nascosto e sono arrivata fino al punto di credere di impazzire. Comunque, c’era anche la sfida pratica. Come si fa ad arrivare ai musei, ad inventare una tecnica nuova, a presentare un discorso innovativo? Nella mia idea utopica i miei lavori dovevano essere esposti semplicemente per stima. Insomma, dovevo riuscire a fare tutto questo senza sporcarmi e andare avanti solo con la ricerca.
Dunque, nessuno conosceva il tuo lavoro per dieci anni…
Nessuno, solo Maurizio Fagiolo dell’Arco ha visto le mie cose a Londra da un mio vicino, collezionista e proprietario di una galleria, al quale ho chiesto di non dire a nessuno che erano opere mie. Ma poi è nata una catena.
Il modo anticonvenzionale in cui ti avvicini al mondo dell’arte sembra in connessione con la tua vita e con il tuo percorso esistenziale. Si può dire che la tua ricerca era già cominciata quando ti arrivasti all’Università?
Credo che la mia strada sia iniziata addirittura prima. A dodici anni, nello studio di mio padre, feci dei disegni, dei bozzetti di moda. Disegnai delle donne che erano ombre. Le immaginai dentro calzamaglie nere, compresa la testa; dentro dei vestiti che erano antropologici, teatrali. Erano vestiti non tagliati, pezzi di tessuto, un po’ “alla De Chirico”, abiti che avvolgevano donne che non c’erano, emblemi, vessilli, cose di nulla.
Dove hai sviluppato maggiormente il tuo discorso? All’estero?
In Germania, in America, in Francia ho trovato delle linee di ricerca interessantissime. Il mio carattere, la mia passione, la mia voglia di rompere schemi, mi hanno però sempre creato molti problemi. Vengo da una famiglia di artisti, saltimbanchi, teatranti, non avevo la pazienza di fare politica universitaria. E comunque le mie teorie erano totalmente all’opposto delle regole accademiche. Così in un momento di crisi ho deciso di utilizzare le mani, di disegnare. Ho iniziato prestissimo. Però provavo vergogna. Facevo qualcosa e lo nascondevo oppure lo strappavo.
Passiamo al tuo lavoro attuale. Sembra che l’esperienza artistica e quella esistenziale siano due elementi fortemente intrecciati nella tua personalità. Dunque, fatalmente, la tua è un’impostazione filosofica. L’uso della radiografia come si inserisce in questo discorso? E’ un punto di partenza, la rivelazione di qualcosa di oscuro?
La radiografia viene usata nell’arte in collegamento con la malattia e la morte. A parte ciò, io non faccio un uso estetico di questa tecnica; non credo di essere nemmeno un artista, almeno se rispettiamo certi canoni della concezione della figura dell’artista. Per me la radiografia è il modo più banale di fare qualcosa contro l’estetica, semmai. L’estetica usa la luce e la luce mostra la pelle delle cose. Quello che mi interessa è lasciare parlare la materia, e non tramite inganni culturali. Io non so cosa accadrà quando faccio con una radiografia. Questo che mi spaventa e mi incanta. E’ la radiografia stessa che dice quello che è…se quella carne è più densa, se la testa si muove, se la persona ha una tensione oppure no.
Esattamente qual è il nocciolo di questo processo creativo?
Io faccio filosofia. Ed anche letteratura. Quando riproponi quadri antichi e classici, letti al contrario, effettui un gioco filosofico. Cosa sono le persone? Sono fantasmi? Sono reali? Sono vivi? Sono morti? Chi sono? Attraverso le sculture credevo di aver raggiunto il mio scopo. Però venivo fraintesa. Da lì sono passata alla radiografia. Ma ci ho messo tre anni. La radiografia è uno strumento tecnico che si è evoluto nel tentativo di mostrare il meno possibile nel modo più chiaro. Io volevo mostrare tutto. La pelle, le ossa, i muscoli, i gesti, gli oggetti, l’aria. Ho dovuto dimostrare di essere credibile e poi ho dovuto risolvere difficoltà tecniche. Trovare, ad esempio, i pannelli di un metro e mezzo per due metri. Sono, così, andata da un artista che lavora il ferro e gli ho chiesto di farmi uno chassis grande. Mi ha costruito un chassis molto rudimentale. Poi ho comprato un pollo sotto casa, ho trovato un radiografo compiacente che mi ha dato il suo studio e abbiamo iniziato di fare delle prove. Con le stampe succedevano le cose più incredibili. Quando ho mostrato all’università questi lavori, il primario di radiologia si è entusiasmato e ha mi chiesto di lavorare da lui, cercando d risolvere questioni molto complicate come l’ottenimento di una lastra e il modo di proiettarla su grandi formati.
La tua ricerca è quasi un’ossessione per la rappresentazione della realtà. Vuoi andare in fondo, cercare di capirla. La radiografia apre i corpi, li svela. Per certi versi il tuo approccio teorico si accosta al cinema di Greenaway e alla sua attenzione nei confronti della materia e dei processi di decomposizione.
Il mio più grande amore è il cinema. Se dovessi scegliere 10 cose da portare sulla luna, porterei 10 film. Ma ho anche il desiderio di prendere un po’ per i fondelli, utilizzando un modo diverso per vedere le cose.
I linguaggi artistici contengono elementi di eversione che non possono essere ingabbiati. Come mai, secondo te, anche il mondo dell’arte diventa sistema?
Per ciò che mi riguarda nel momento in cui rischierò di essere inglobata nel sistema, smetterò. Per me non è facile essere ingabbiata. Dico sempre la cosa sbagliata nel momento sbagliato. Una sera con alcune persone che mi promettevano mostre, io ho detto una frase solo per “picchiare duro”. Mi hanno accusato di essere una “cofferatiana” ed un’utopista. Ma non ho detto alcunché. E’ talmente facile essere eversivi senza fare nulla di speciale.
Hai mai pensato anche all’uso di altre tecnologie, come il video?
Sì. Ma con il video, per ottenere quello che voglio, devo essere in grado di far emergere esattamente ciò che voglio mostrare. La tecnologia dovrebbe essere molto povera. Bisogna arrivare all’osso.
Ritorniamo alle radiografie. Le tue opere rappresentano quello che già siamo? Forse siamo già morti?
C’è una sospensione del giudizio nel mo lavoro. Io radiografo persone vive mentre esistono. Sta poi a chi guarda giungere ad una conclusione. Mi piacerebbe arrivare al punto che chi vede le mie cose riesca a guardarle proprio come faccio io. Chi guarda, dunque, potrebbe riuscire a comprendere se chi ha intorno sia vivo o morto. Io mi limito a radiografare.
Ma qual è il vero elemento di verità in queste radiografie? Non intendi forse tentare di dare forma alla morte?
Il bello della vita è che c’è la morte. Per questo il desiderio ha un senso; perché c’è il tempo che lo condiziona. Poiché se il desiderio fosse assoluto, sarebbe privo del suo stimolo fondamentale che è quello di lottare con il tempo. La vita è desiderio…e non ha senso.
Pasolini diceva che quello che dà senso alla vita è la morte, fattore che arriva a chiudere un’esistenza come un montatore chiude un film. La morte dà il montaggio definitivo alla storia di un individuo…
Certo, il senso della vita è racchiuso nel momento in cui si muore. Però muori ogni giorno. Se si arriva a considerare ogni giorno come quello in cui si potrebbe morire si finisce per avere un atteggiamento rivoluzionario. Per questo non possiamo che essere anarchici e rigorosi.
© CultFrame 02/2003