Una pelle così candida da sembrare trasparente, capelli biondi da sembrare quasi bianchi, occhi chiari che rendono fragile lo sguardo. Gli albini del fotografo sudafricano Pieter Hugo sono ritratti al centro dell’inquadratura, su uno sfondo grigio/verdastro, una tonalità che non invade e non scuote la figura già vulnerabile dell’individuo. Sono scatti effettuati in giro per il mondo, spesso in condizioni difficili. La serie di immagini intitolata semplicemente “ritratti di albini” è presentata alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna nell’ambito di FotoGrafia, Festival internazionale di Roma.
L’interesse di Hugo oscilla tra la fotografia documentaristica di impronta sociale, con particolare riferimento ai temi dell’Africa e degli altri paesi in via di sviluppo, e lavori più artistici e sperimentali. I contenuti delle sue fotografie vanno dalla schiavitù infantile nel Sudan straziato dalla guerra, ai campi di rifugiati curdi in Italia, fino agli ospedali psichiatrici di massima sicurezza in Sud Africa. Ecco alcuni enti internazionali con i quali ha lavorato: l’Organizzazione Mondiale della Sanità, UNICEF, Anti-Slavery International e The New Yorker. Pieter Hugo ha recentemente terminato un periodo di lavoro di due anni nel dipartimento fotografia di Fabrica.
Durante l’inaugurazione l’abbiamo incontrato.
Cosa l’ha spinta alla realizzazione di questa serie di fotografie?
Tutto è cominciato nel corso di una mostra intitolata “Margins”, alla quale ho partecipato, che si occupava del tema dell’emarginazione in Sud Africa. Io ho presentato un ritratto realizzato in un orfanotrofio, luogo che ritengo essere uno dei più rappresentativi della condizione degli emarginati. Il ragazzo orfano che ho fotografato era albino e la sua immagine mi tornava in mente in continuazione. Così ho deciso di proseguire la mia ricerca.
Cosa significa essere albino in una società come quella Africana?
Molte persone sono superstiziose nei confronti degli albini e per quanto ne so io, li guardano in maniera negativa. Non ho mai sentito dire qualcosa di positivo nei loro confronti. Inoltre, un albino soffre di grossi problemi fisici. La mancanza di melanina causa il cancro della pelle. Dunque, gli albini che vivono nei paesi del terzo mondo muoiono molto giovani. Ma c’è anche da notare il loro aspetto. In tal senso ci sono discrepanze tra gli albini nel terzo mondo e quelli nel primo mondo. Gli albini inglesi, per esempio, hanno un aspetto angelico. In Africa, invece, i lineamenti sono più duri. E poi, mentre in Inghilterra è possibile trovare con facilità ed acquistare prodotti per proteggere la pelle e un albino può scegliere un lavoro che lo metta al riparo dal sole, quelli che vivono, solo per dare un esempio, su un’isola brasiliana, sono pescatori e dunque esposti ad un serio pericolo.
Ma qual è l’atteggiamento degli individui nei confronti degli albini?
E’ difficile parlare dell’Africa in generale. Ogni paese, ogni cultura assume un atteggiamento diverso. In Zimbabwe per esempio questa condizione è considerato una maledizione. In Sudafrica, invece, c’è la credenza che se un malato di Aids violenta una donna albina, sarà guarito. In Mali abbiamo l’esempio del cantante albino Salif Keita il quale non avrebbe potuto fare il musicista perché non apparteneva alla casta dei musicisti, e per di più era anche un albino, dunque la sua strada era particolarmente ostacolata.
Le persone che ha fotografato, già provati dalla loro condizione, come hanno reagito davanti alla macchina fotografica?
Le reazioni sono state diverse. Sono degli individui e ognuno di loro ha un rapporto diverso con sè stesso. Penso che la maggior parte di loro si sono divertiti ad essere fotografati proprio perché normalmente non godono di attenzioni dalla parte della società. E’ molto diverso anche da una cultura all’altra, dall’Africa al Brasile, dall’Inghilterra a Hong Kong. Quelli di Hong Kong sono timidi, i sudafricani si sentono abbastanza a loro agio, i brasiliani quasi indifferenti.
Lei ha scattato fotografie nei manicomi criminali e fotografato i malati di tubercolosi. Lo stile che hai utilizzato non ha niente a che vedere con le fotografie degli albini. Le serie precedenti sono dei reportage, qui c’è una scelta di stile precisa…
Quei lavori sono stati commissionati dunque ero legato a certi obblighi. Ora, ho voluto allontanarmi dallo stile documentaristico. Lo stile che ho scelto per la serie degli albini è più personale. Non è stato facile. Avevo con me uno studio portatile, delle lampade. Molte delle fotografie sono state realizzate in posti remoti, nel bel mezzo del nulla, con una macchina fotografica che richiede lunghe procedure, lunghe esposizioni. Scattavo anche delle Polaroid, discutevamo dei risultati. Per fare una fotografia ci vogliono 20 minuti. Ed è proprio la lentezza della ripresa che rende il rapporto così intimo.
Prima di fotografarli, dunque, costruiva un rapporto con I suoi soggetti?
Quando potevo. A volte stavo con loro per una giornata sola.
Cosa desidera trasmettere alla gente con queste fotografie?
Onestamente, non ho mai pensato di sposare la causa degli albini, questo no. Ma ho l’impressione che quando la gente guarda queste fotografie, capisce qualcosa in più della condizione umana. E in questo sento di aver dato un mio contributo.
C’è qualche episodio che l’ha particolarmente colpita?
Dovevo andare in Brasile per fotografare una favela. Una mia amica sudafricana, che era a conoscenza del mio progetto sugli albini, mi ha informato di un’isola brasiliana dove c’è una forte concentrazione di albini. Questo luogo non è segnato nemmeno sulla mappa e c’è una gran confusione circa la sua collocazione. Sono riuscito comunque ad individuarlo ma siccome non esistono nemmeno dei collegamenti, ho dovuto arrivarci con dei pescatori. Nessuno conosce il vero motivo per cui ci vivono così tanti albini. Probabilmente, in un certo momento, molti hanno deciso semplicemente di andarci a vivere e visto che è un luogo isolato e remoto, si sono anche sposati tra di loro. Arrivarci è stata un’avventura che paragono alla Parigi-Dakar. Io, con tutta l’attrezzatura sulle barche dei pescatori… e avevo solo due giorni a disposizione.
Hai qualche progetto in cantiere?
Ho un progetto per la commemorazione del genocidio avvenuto in Ruanda dieci anni fa. Sono rimasto stupito quando ho visto che i corpi delle vittime non sono stati rimossi dai luoghi dei massacri. E così, ancora oggi, ci sono chiese piene di scheletri. La mia sarà una documentazione fotogiornalistica.
© CultFrame 04/2004
Mostra allestita nell’ambito di FotoGrafia – Festival Internazionale di Roma 2004
INFORMAZIONI
Ritratti di Albini – Fotografie di Pieter Hugo
Dal 15 aprile al 16 maggio 2004
Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Sala Libreria Sacs / Viale delle Belle Arti 131, Roma / Telefono 06.36002604
Orario martedì – domanice 8.30-19.30 (chiuso martedì)
SUL WEB
Il sito di Pieter Hugo
FotoGrafia – Festival Internazionale di Roma