La sostanza e la vita culturale di un paese moderno sono sempre perfettamente rispecchiate nella sua produzione artistica. Un sistema politico-sociale democratico, infatti, restituisce l’immagine di sé attraverso le opere di quegli individui che compiono uno sforzo complessivo di rielaborazione delle sollecitazioni provenienti dal mondo esterno, sollecitazioni che si vanno ad innestare in un tessuto interiore generatore di sensazioni, idee e progetti.
Ebbene, nel caso della mostra allestita a Roma, presso il Museo Andersen (GNAM), e intitolata semplicemente Fotografia Israeliana Contemporanea, il fattore che emerge con chiarezza è la vivacità dello sguardo degli artisti inseriti in questa articolata collettiva. La varietà degli stili, le differenze contenutistiche, i diversi approcci formali, la labirintica ragnatela delle spinte poetiche, la modernità dei linguaggi visuali, sono tutti elementi che portano alla luce una produzione fotografica densa e al passo con le tendenze creative dell’arte contemporanea.
Ben undici sono i fotografi presenti, cinquantacinque i lavori selezionati e disposti nelle stanze del piccolo, ma prezioso e accogliente, museo situato nel cuore di Roma, a due passi da Piazza del Popolo.
L’ingresso dell’esposizione è riservato a quello che può essere considerato il decano dei fotografi di Israele: Micha Bar-Am. Settantacinquenne fotoreporter nato in Germania ed emigrato in Israele (allora Palestina) prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, Bar-Am è membro dell’Agenzia Magnum e da moltissimi anni documenta instancabilmente le vicende belliche, sociali e politiche del suo paese. Il suo stile è realistico, attento sia alla pura testimonianza che alla ricerca di carattere compositivo. Paradossalmente, però, Bar-Am dà il meglio di sé quando esclude la figura umana, lasciando spazio di interpretazione allo sguardo del fruitore e all’immaginazione.
Quest’ultima cifra stilistica sembra essere al centro del lavoro di Simcha Shirman. Artista raffinato ed eclettico, Shirman, almeno nel caso dei lavori esposti al Museo Andersen, procede attraverso forme di rappresentazione del visibile che prediligono atmosfere rarefatte ed enigmatiche. Ad un’attenta analisi delle immagini si percepisce la scelta di non sottostare al semplice gioco della perfezione estetica, anzi la sfida di Shirman sembra essere quella di produrre emozioni visuali attraverso sottili incompiutezze che si oppongono all’idea di un bello fotografico perfetto ma gelido. Un senso di vuoto e smarrimento regna nello spazio indistinto che separa il mare dalla terra, la realtà si disperde in una visione onirica e sospesa, in un’attesa gonfia di sentimenti contraddittori. Le sei stampe proposte nella mostra romana sono di qualità altissima, tutte incentrate sulla sapiente miscelazione e alternanza dei grigi, caleidoscopio di sfumature che trasporta chi guarda in una dimensione poetica apparentemente fredda ma in verità sostenuta da toccanti e nascosti tumulti poetici.
Nelle sale laterali, spicca la contrapposizione tra Gilad Ophir e Leora Laor. Mentre il primo mostra una raffigurazione dialettica tra le diverse architetture di Tel Aviv, ora moderne e razionali, ora essenziali e soffocanti, la seconda porta alla luce la vita, apparentemente spensierata, dei bambini di Mea Shearim, quartiere ultraortodosso di Gerusalemme. In questo efficace dualismo si comprende tutta la stratificazione orizzontale e verticale della società israeliana, società-contenitore sorprendente, specie per chi conosce Israele solo attraverso i mezzi di informazione occidentali ed europei.
Altro dualismo è quello tra Ohad Matalon e Roi Kuper. Matalon recupera una concezione simbolica, per certi versi pasoliniana. Grandi palazzi sullo sfondo, producono un margine che separa città e campagna. In questo territorio indeterminato i corpi di esseri umani e animali si trasformano in icone di un mondo nel quale ogni oggetto visibile potrebbe evocare una diversa realtà Kuper, a sua volta, utilizza un impianto pittorico molto chiaro nel quale l’acqua gioca un ruolo fondamentale. Le sue fotografie sono molto delicate, quasi astratte, non esprimono tensioni ma equilibrio ed armonia. Un’impostazione fortemente pittorica è presente anche nella splendida sala dedicata ad Adi Nes. Quest’ultimo è una piccola star dell’arte contemporanea israeliana, viste le quotazioni che hanno raggiunto le sue opere. Leonardo e Caravaggio sembrano essere i suoi punti di riferimento. Su tali ingombranti modelli espressivi, Nes innesta la sua poetica tutta incentrata sulla bellezza e dell’armonia e basata sulla dissacrazione sistematica del mito del soldato israeliano, forte e macho.
Nella stanza successiva si fronteggiano Elinor Carucci e Michal Chelbin, in una sorta di ricerca contrapposta sull’universo femminile. La sensualità e la maturità dei corpi da un parte, il realismo magico del mondo infantile dall’altra.
Proseguendo si incontrano le interessanti immagini di Ori Gersht, due monumentali ulivi secolari che si fronteggiano evocando lo spirito del Medio Oriente e evidenziando, attraverso un processo di iconizzazione di stampo tecnicistico, un simbolo naturalistico sia ebraico e che arabo (dunque mediterraneo) e di conseguenza il tema della convivenza e delle radici comuni dei due popoli.
Infine, il percorso si conclude con Yossi Breger che concentra il proprio sguardo sull’architettura, da lui stesso definita hardcore, di Tel Aviv. Edifici anonimi, palazzi apparentemente privi di identità, luoghi senza figure umane, componenti del cosiddetto “Israeli Project”, uno studio approfondito sulla realtà urbana e architettonica di Israele.
© CultFrame 05/2005
IMMAGINI
1 Micha Bar-Am. Chairs, Suez Canal, 1974. ©Micha Bar-Am/Magnum/Contrasto
2 Simcha Shirman. Israeli Landscape, 2004. Courtesy Gordon Gallery, Tel Aviv
3 Gilad Ophir. Ramat Gan Diamond District, 2002. Courtesy Gordon Gallery, Tel Aviv
4 Ori Gersht. Untitled, 2004. From Blaze series. Courtesy Noga Gallery of Contemporary Art, Tel Aviv
5 Adi Nes. Untitled, 1999. from the Soldiers series. Color photograph, 90x148cm. ©Adi Nes – Dvir Gallery, Tel Aviv
6 Ohad Matalon. Mum, Kiryat Malachi/Mum, city of my angel, 2001. ©Ohad Matalon – Dvir Gallery, Tel Aviv
7 Elinor Carucci. Eran and I, 1998. Courtesy Noga Gallery of Contemporary Art, Tel Aviv
8 Michal Chelbin. Pitchou and the Mongolians, 2003. ©Michal Chelbin – Dvir Gallery, Tel Aviv
INFORMAZIONI
Dal 5 maggio al 16 giugno 2005
Museo Hendrik Christian Andersen / Via Pasquale Stanislao Mancini 20, Roma / Telefono: 063219089
Orario: tutti i giorni 9.00 – 19.00 / chiuso lunedì / Ingresso libero
Cura: Orith Youdovich
Libro: Fotografia Israeliana / A cura di Orith Youdovich / Testi: AA.VV.
Editore: FPM Edizioni, Roma, 2005 / 120 pagine / 40 fotografie / 60,00 euro / ISBN: 88-88046-34-8
LINK
CULTFRAME. Fotografia israeliana contemporanea. Un libro a cura di Orith Youdovich
CULTFRAME. Il corpo è il pensiero. Ritratti, autoritratti e nudi femminili. Mostra di Simcha Shirman