Rinchiuse in cornici che sembrano teche, come reliquie della memoria le fotografie di Patti Smith sembrano antiche, per via della loro delicata monocromia dai toni sfumati e, a volte, persino per l’aspetto dei soggetti rappresentati. Costituiscono una sorta di raccolta, in effige, di luoghi e d’oggetti d’affezione, appartenuti a persone amate o ammirate. Ricordano volutamente delle incisioni stampate, come sono, su fogli di carta opaca più grandi, che le incorniciano in un largo bordo d’un bianco spento.
Per guardarle bisogna, in genere, chinarsi perché sporgono dalle pareti in posizione quasi orizzontale, l’una accanto all’altra (sono solo poche quelle attaccate alle pareti, in serie di tre o quattro); e bisogna scrutarle piuttosto da vicino, perché le immagini sono piccole, trasferite per contatto da lastre di 4×5 pollici.
Si ha l’idea ci chiamino ad affacciarci su un mondo personale, fatto di ricordi e di concetti, evanescente in una diffusa atemporalità.
“Land 250”, titolo della mostra, fa riferimento al mezzo usato per dare forma concreta a queste rappresentazioni che l’autrice definisce “più il risultato di una meditazione che di percezioni visive”: è un vecchio modello di Polaroid, risalente agli anni ‘60, un apparecchio a telemetro dall’otturatore molto impreciso, pare, il cui valore commerciale oggi oscilla fra i cinque e i quaranta dollari.
La modestia del mezzo scelto, di certo non trova il suo corrispettivo nei risultati estetici ottenuti, che sembrano anzi trarre giovamento da qualche limite tecnico: una certa piattezza bidimensionale e una scarsa definizione, semmai, accentuano l’aspetto visionario di questi scatti.
Davanti ai nostri occhi scorre, così, una continua epifania d’ombre, create dalla luce ed impresse sulla carta grazie al processo chimico della fotografia. Strappate dal normale flusso della vita sono diventate effimere e permanenti al tempo stesso, e recano con sé un che di “funereo” ed ectoplasmatico. Non parliamo però in termini di analisi barthesiana, perché allora potremmo dire questo della quasi totalità delle immagini fotografiche, parliamo piuttosto di una sensazione di fondo emotivamente ben concreta, che possiamo percepire costantemente lungo il percorso di questa mostra: non soltanto dinnanzi al calco in gesso del busto di Blake, fonte di tanta ispirazione per la Smith, o alla croce di marmo velata, che sappiamo essere appartenuta al fraterno amico scomparso, Robert Mapplethorpe. Sorge il pensiero che se tutto questo è il prodotto di meditazioni, loro soggetto sarà stato la caducità dell’esistenza.
Influenzata dalla spiritualità orientale e dal misticismo cristiano, come dalla riflessione sull’arte simbolista di William Blake e su quella “atmosferica” dell’impressionista Monet, ma anche, e forse soprattutto, segnata dal dolore per la perdita delle persone a lei più vicine, questa Patti Smith sembra molto diversa dalla cantante tormentata e ribelle, degli anni ’70, dalla poetessa rock, che pure profeticamente chiudeva con questo verso il suo più celebre album, “Horses”: “I hear them in the distance / And my skin emits a ray, but I think it’s sad, it’s much too bad / That our friends can’t be with us today”.
© CultFrame 05/2005
INFORMAZIONI
Dal 17 aprile al 29 maggio 2005
Palazzo Fontana di Trevi / via Poli 54, Roma / Telefono: 0669980257
Orario: martedì – domenica 10.00 – 13.00 e 14.00 – 19.00 / chiuso lunedì
Biglietto: intero 5,00 euro / ridotto 3,00 euro