Nan Goldin. 1953 (Washington D.C.)
Goldin ha poco più di cinquant’anni ed è già considerata una pietra miliare della fotografia a livello internazionale. Le sue foto hanno ispirato molti suoi colleghi (si pensi al tedesco Wolfgang Tillmans, all’inglese Richard Billingham o all’olandese Bertien Van Manen), diventando così parte integrante dell’immaginazione visiva contemporanea. Tuttavia, scorrendo superficialmente le sue fotografie, è quasi naturale chiedersi cosa le differenzi da quelle che compongono un qualsiasi album di famiglia; infatti, la Goldin non sembra far altro che cogliere, con l’estetica dell’istantanea, momenti di vita quotidiana senza alcuna particolare storia dietro (come persone che bevono una birra o fumano una sigaretta o guardano dalla finestra) oppure attimi di vita familiare colta in gesti anonimi e ripetitivi. Eppure, c’è differenza.
Innanzitutto, la Goldin si addentra anche nei momenti più intimi della vita delle persone (quelli che in genere vengono relegati nel proprio privato), raccontando sentimenti come la solitudine, lo sconforto, la tristezza, la malinconia, fino a spingersi ancora più a fondo, riprendendo situazioni e comportamenti soggetti a tabù, come il sesso e la malattia. L’artista, infatti, è famosa per i suoi espliciti ritratti erotici di persone eterosessuali e omosessuali (Clemens, il suo giovane amico attore teatrale, si è fatto riprendere più volte in intimità con l’amante); ciononostante, non viene mai usato un linguaggio pornografico o sensazionalistico, perché l’atto sessuale è visto come parte di una relazione più ampia e complessa. Molto toccante è la sua serie di fotografie su Gilles (proprietario di una galleria parigina) e sull’artista parigino Gotscho (suo partner): Nan registra con grande compassione e delicatezza gli ultimi mesi di vita di Gotscho, dai primi sintomi dell’AIDS (impressionante il primo piano del braccio ossuto appoggiato sul lenzuolo del letto d’ospedale) fino alla sua morte nel 1993 spingendo i confini dei tabù sociali a tal punto da addentrarsi in un campo che sino a quel momento era stato di esclusivo predominio maschile, fino a rappresentare addirittura nel 1999 la storia di Greer e la sua trasformazione da uomo a donna.
Ancora: molti suoi scatti trascendono il racconto di vicende specifiche per diventare emblematiche di sentimenti più generali; a tal proposito, è particolarmente significativa The Ballad of Sexual Dependency, la sua serie fotografica più famosa. In 700 istantanee a colori Nan riprende amici, familiari e se stessa alle prese con le proprie relazioni sentimentali, delle quali vengono messi in evidenza sia il contrasto fra autonomia e dipendenza sia l’antagonismo all’interno della coppia. Molte immagini si soffermano, infatti, su due amanti seduti sul letto che, dopo aver fatto l’amore, invece di ricambiarsi sguardi di intimità, guardano in direzioni opposte, dimostrando distanza ed estraniazione fra di loro, come accade ad esempio nella celebre fotografia Nan and Brian in bed (New York, 1983) che appare anche come copertina di The Ballad. Brian (che è stato compagno della Goldin per tre anni) è il soggetto di numerose fotografie che esprimono, con brutale franchezza, il loro rapporto basato più sull’impossibilità di comunicare che sull’idea di amore e segnato da tanti momenti di forte crisi: in Nan One Month after Being Battered (New York, 1984), uno degli autoritratti più spietati, la Goldin ha il volto gonfio dalle percosse che il suo amante Brian le ha dato prima che finisse la loro relazione. Ma l’esempio più eloquente per il suo valore emblematico è The Hug (realizzata a New York nel 1980), nella quale l’attenzione è rivolta all’abbraccio ambiguo di una coppia che non è chiaro se sia travolta dalla passione o piuttosto dall’impegno della lotta. In conclusione, la serie The Ballad è una riflessione sull’amore vissuto nella quotidianità, come è sottolineato anche dall’organizzazione delle fotografie in uno slide show (di 50 minuti) accompagnato da una colonna sonora, fatta di brani musicali di generi diversi (musica classica, pop e rock), come se fosse un film.
La sistematicità è, in effetti, un’altra caratteristica del lavoro artistico di Nan Goldin: nella maggior parte dei casi sceglie un tema o un soggetto, dedicandosi a esso per diversi anni. Oltre a The Ballad, è famosa la serie The Cookie Portfolio che comprende una selezione di 15 ritratti realizzati dal 1976 al 1989 alla sua amica Cookie (attrice, poetessa e attivista culturale sulla scena underground di New York). Le fotografie ripercorrono la storia della loro amicizia e di tutti i momenti condivisi: c’è il loro primo incontro in Provincetown nel 1976; c’è il matrimonio di Cookie nel 1986 con Vittorio Scarpati, artista napoletano che viveva a New York; c’è il funerale di Vittorio che morì di AIDS qualche mese prima di Cookie; c’è la sua amica accudita dalla ex amante Sharon che le sta accanto negli ultimi mesi di vita, quando la degenerazione della malattia non le consente più nemmeno di parlare. Ancora una volta, la presentazione di un racconto attraverso gli anni fa sì che The Cookie Portfolio non sia soltanto la descrizione di una storia personale e intima, ma un tributo all’amicizia.
Infine, è importante sottolineare lo sguardo con cui la Goldin riprende i suoi soggetti: la modalità di registrazione è carica di umanità, di empatia e di candida onestà, rivelando anche i dettagli più scioccanti secondo un atteggiamento debitore delle fotografie di Sander, Weegee, Clark e della Arbus. Il suo sguardo è talmente diretto da poter essere paragonato a uno specchio, come suggerisce la sua prima mostra retrospettiva (tenutasi nel 1996) che è stata chiamata I’ll Be Your Mirror, ispirandosi al titolo dell’omonima canzone composta da Lou Reed e la cui prima strofa recita: Sarò il tuo specchio / rifletterò quello che sei / nel caso non lo sapessi / sarò il vento, la pioggia e il tramonto / la luce alla tua porta / per mostrarti che sei a casa. Nan è profondamente animata dal desiderio di registrare e di raccontare tutto ciò che ha a che fare con lei esattamente com’è, nella speranza di salvarlo dall’azione dissolvente del tempo; è un obiettivo talmente importante, a cui si dedica con la fotografia e con la scrittura. Pare, infatti, che conservi dozzine di taccuini (tutti esattamente della stessa misura, forma e colore) su cui è solita appuntarsi pensieri riguardanti persone, luoghi o momenti particolari, come si può vedere nell’immagine Self-portrait writing in my diary (scattata a Boston nel 1989), nella quale la fotografa appare nell’intimità della camera da letto, mentre è intenta a scrivere su un taccuino.
La produzione artistica di Nan Goldin è, quindi, molto più di un “diario pubblico” (come lei stessa l’ha definita), perché nel suo album fotografico non viene tratteggiato soltanto il ritratto di una famiglia nient’affatto comune, ma di un’intera generazione newyorkese che, dagli anni Settanta in avanti, ha fatto emergere tematiche anticipatrici e, spesso, provocatorie, come un diverso concetto di identità sessuale o l’uso di droghe. Perciò, a chi la critica per la scelta dei soggetti, lei risponde con queste parole tratte dal finale del documentario Contacts (1999): «Il mio lavoro è sempre stato equivocato come riguardante un certo milieu di droghe, party selvaggi e bassifondi; ma anche se la mia famiglia è ancora marginale, e non vogliamo far parte della ‘società normale’, penso che il mio lavoro non abbia mai trattato di questo, ma semplicemente della condizione di essere umani, il dolore, la capacità di sopravvivere, e quanto sia difficile tutto ciò».
BIOGRAFIA
Nancy Goldin nasce a Washington il 12 settembre 1953 da genitori ebrei, appartenenti alla classe media e le cui idee, moderatamente liberali e progressiste, vengono messe a dura prova quando il 12 aprile 1965 la figlia maggiore Barbara Holly, all’età di diciotto anni, si toglie la vita. I Goldin si rifiutano di accettare e di raccontare l’accaduto sia all’esterno delle mura domestiche, per mantenere una certa rispettabilità nei confronti dei vicini piuttosto conservatori, sia all’interno, nella convinzione che un simile atteggiamento possa aiutare a sopravvivere loro e i tre figli rimasti. Invece, l’effetto ottenuto è l’opposto: non soltanto Nancy non crede alla versione di un incidente accaduto alla sorella, ma addirittura sviluppa un desiderio quasi ossessivo e insanabile nei confronti della verità, anche se è dolorosa o sconfortante.
Dopo qualche anno, nel 1969, capisce di averne abbastanza di una vita familiare e scolastica forzatamente convenzionale, quindi si iscrive alla Satya Community School (a Lincoln), da lei stessa soprannominata la “hippie free school” per le idee più aperte che circolano in essa. Giorno dopo giorno il pensiero della sorella comincia ad affievolirsi e quasi a svanire, perciò Nancy – con un atteggiamento debitore della sua vecchia passione per la psicanalisi – decide di prendere in mano la macchina fotografica per salvare se stessa e gli amici più intimi dall’azione dissolvente del tempo. Fra le persone care che entrano in quegli anni nella sua vita ci sono David Armstrong e Suzanne Fletcher, i quali hanno un’influenza determinante su di lei. Infatti, è grazie a loro che, una volta trasferitasi a Boston per studiare alla School of the Museum of Fine Arts, viene introdotta nel nightclub The Other Side e nella subcultura delle drag queens. La Goldin le riprende in una serie di fotografie (tutte in bianco e nero), perché è affascinata dal loro mondo parallelo, fatto di frivolezze e di eccessi ma che, collocandosi al di fuori delle convenzioni, risulta in un certo senso più autentico.
Dalla fine degli anni Settanta la vita di Nan cambia ancora più radicalmente, complice il nuovo trasferimento nel 1978 prima a Londra, poi a New York. Prende a Bowery un piccolo studio che condivide con alcuni amici e, per mantenersi, lavora come barista in un nightclub. Frequenta assiduamente i club della sottocultura di Times Square, club che diventano la causa primaria della sua vita sregolata e della dipendenza da alcool e droghe, ma che danno nuova linfa al suo lavoro. Infatti, proprio in questo periodo, la Goldin mette a punto il suo caratteristico “sguardo”: abbandona il bianco e nero per il colore (dai toni della quotidianità) e per l’uso costante del flash; riprende esclusivamente la sua vita e quella degli amici più vicini (come Cookie Mueller, Sharon Niesp, Bruce Balboni e David Armstrong); proietta le sue fotografie in slide show, come fossero filmati, in club aperti alla sperimentazione come il Rafiks Underground Cinema, il Mudd Club e più tardi il Maggie Smith’s Tin Pan Alley. Col tempo aggiunge fotografie nuove e risistema costantemente la serie fino a quando, nel 1986, ha materiale sufficiente per allestire una mostra alla Burden Gallery di New York e per pubblicare un libro fotografico dal titolo The Ballad of Sexual Dependency: la maggior parte delle immagini presentate raccontano di relazioni sentimentali in bilico tra voglia di autonomia e bisogno di dipendenza.
Nella seconda metà degli anni Ottanta la Goldin ottiene un grande successo: il suo lavoro comincia a essere portato e apprezzato in gallerie e musei di varie città americane ed europee, mentre The Ballad viene proiettata ai Film Festival di Edimburgo e di Berlino; contemporaneamente, questo periodo è segnato dall’ingresso prepotente dell’AIDS nella vita di Nan. La malattia, infatti, colpisce molti suoi amici (fra cui anche Cookie Mueller, la sua amica di sempre): la Goldin soffre con e per loro, riesce a documentarli con tatto e quasi con riservatezza quando scoprono di essere sieropositivi, quando mostrano i primi segni della malattia, quando sono in fase terminale, quando muoiono mentre le persone che li amano piangono. È un momento di crisi affettiva e interiore che la porta a rivedere i suoi stili di vita; decide di farla finita con alcool e droghe, così nel 1988 entra in una clinica per disintossicarsi. Con sé ha, come sempre, la macchina fotografica con la quale scatta molti autoritratti inondati, qualche volta, dalla luce diurna che Nan scopre in quel momento così particolare della sua vita. Inoltre, diventa un’attivista dei gruppi Act Up e Visual AIDS tramite i quali organizza la prima grande mostra a New York sul tema dell’AIDS e promuove l’istituzione della giornata mondiale su questa malattia che viene ricordata il primo dicembre di ogni anno.
E poi arrivano gli anni Novanta. La Goldin intensifica i viaggi che le forniscono nuove occasioni per fotografare: grazie all’assegnazione di una borsa di studio dal DAAD, vive per tre anni a Berlino; in seguito, viaggia in Europa, in Giappone, in Italia. Torna diverse volte a Napoli, a cui dedica il libro Ten years after: Napoli 1986-1996, e in Sicilia, dove realizza alcuni fra i suoi più famosi scatti paesaggistici che esprimono anche una riconciliazione con la natura. Pubblica vari libri come Cookie Mueller, The Other Side, A Double Life (insieme al suo caro amico David Armstrong).
Le fotografie di questi anni presentano ancora tematiche legate a una visione sofferta della vita, ma che sono espresse in modo più metaforico; basti citare la suggestiva Honda brothers in cherry blossom storm (scattata a Tokyo nel 1994), nella quale la pioggia di fiori di ciliegio è simbolo della brevità della vita e di quanto sia effimera la bellezza, e The sky on the twilight of Philippine’s suicide (scattata in Svizzera nel 1997), in cui un tempestoso cielo dai toni rossi esprime chiaramente il dolore provato per il suicidio dell’amica. Però, nel complesso, le fotografie di Nan acquisiscono toni più ottimistici: lo dimostra la qualità diversa dei ritratti della scena alternativa di New York, Bangkok, Manila e Tokyo oppure la rappresentazione dell’amore che si esprime anche attraverso i ritratti a Siobhan, sua partner e amica per alcuni anni. C’è un modo più gentile di vedere le relazioni sentimentali e affettive che, ora, diventano luogo di complicità e di tranquilla vita familiare e sono libere dall’antagonismo alla base di The Ballad of Sexual Dependency.
Il 1996 e il 1997 rappresentano anni di bilancio personale e artistico. Infatti, nel 1996 Nan Goldin allestisce al Whitney Museum di New York la mostra retrospettiva I’ll Be Your Mirror (titolo ispirato dall’omonima canzone di Lou Reed). Sulla copertina del catalogo c’è un autoritratto che vale la pena ricordare, perché rappresenta perfettamente il nuovo spirito della Goldin: Self-portrait on the train scattata in Germania nel 1992) mostra il primo piano del profilo del volto della fotografa che guarda fuori dal finestrino del treno verso un paesaggio sfocato. I colori tenui e la tranquillità dell’atmosfera dell’immagine concretizzano il percorso di Nan Goldin che, dopo un lungo e doloroso viaggio, sembra indirizzarsi verso una nuova stagione di maturità e di serenità. Nel 1997 I’ll Be Your Mirror è il titolo scelto anche per il documentario girato con la collaborazione dell’inglese Edmund Coulthard. In 50 minuti di riprese viene condensata con sincerità e umanità la vita e l’opera di Nan Goldin, dalla periferia di Washington D.C. a New York, avvalendosi del contributo di interviste ai suoi più cari amici, di video e di fotografie dell’artista. Il percorso personale di Nan diventa anche il ritratto di una generazione, come viene esplicitato dalla scelta della colonna sonora, affidata a brani di quegli anni di The Velvet Underground, Patti Smith, Television e Ertha Kitt. Il documentario viene mostrato al Festival Internazionale di Edimburgo e al Berlino Film Festival, ha ricevuto un premio speciale dalla giuria del Prix Italia e ha vinto il premio come miglior documentario al Montreal Festival of Films on Art.
Negli ultimi anni Nan Goldin ha realizzato altri documentari, ha allestito nuove mostre e ha avuto incarichi “originali”, come quello per la SNCF; infatti, nel 2002 e nel 2003 le ferrovie di stato francesi le hanno affidato la realizzazione di fotografie per una campagna pubblicitaria che deve presentare scene di vita a bordo dei treni della regione parigina. Questo incarico dimostra, oltre al nuovo legame stretto con la città di Parigi, il fatto che la Goldin sia ormai comunemente riconosciuta come colei che riesce a rappresentare la vita quotidiana in tutte le sue sfaccettature, con semplicità ma senza autoreferenzialità né voyeurismo. «Io credo – ha scritto lei stessa – che uno dovrebbe creare da ciò che conosce e parlare della sua tribù… Tu puoi parlare solamente della tua reale comprensione ed empatia con ciò di cui fai esperienza».
© CultFrame 04/2006
BIBLIOGRAFIA
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Goldin, N., Il giardino del diavolo, Phaidon Press, 2003
Goldin, N., Devil’s Playground, Phaidon Press, 2003
Gagnon, P., Nan Goldin, Musée d’art contemporain de Montréal, 2003
Goldin, N., The Ballad of Sexual Dependency, Aperture, 2001
Goldin, N., The Other Side 1972-1992, Scalo, 2000
Goldin, N., Costa, G., Nan Goldin. Ten Years After – Naples 1986-1996, Scalo, 1998
Sussman, E., Goldin, N., Armstrong, D., Holzwarth, H.W., Nan Goldin – I’ll Be Your Mirror, Whitney Museum of American Art, 1997
Goldin, N., Kertess, K., Desire by Numbers, Artspace Books, 1994
Goldin, N., Armstrong, D., Double Life, Scalo, 1994
Goldin, N., Cookie Mueller – Photographs, Pace/MacGill Gallery, 1991
SUL WEB
Un’intervista a Nan Goldin accompagnata da numerose immagini
Cinquanta immagini realizzate da Nan Goldin
Tate Gallery di Londra. Immagini realizzate da Nan Goldin