A ognuno degli assemblaggi di Jessica Stockholder ci si avvicina in modo diverso, in una specie di gioco, quasi cercando una forma, un fare del corpo ma anche del pensiero che possano corrispondergli. In tutti i suoi incastri di oggetti si incontrano colori accesi e dissonanti, accostamenti improbabili dei materiali, linee (anche di senso) spezzate e poco confortevoli, ma in ciascuno di essi si può cogliere un diverso umore, forse anche un diverso racconto.
Una specie di gioia un po’ forzata sta nella fila indiana in cui sono disposti alcuni cassetti e la cassettiera che li conteneva: il moto di allegria è nell’accenno a un girotondo disegnato dal curvarsi della fila; la forzatura è nella corda che unisce i singoli elementi, dove colori e posizioni erano sufficienti a farne un gruppo coeso. Atteggiamento diverso, quasi altezzoso, per una coppia di lampade che sembrano procedere lungo lo stretto corridoio della galleria dando le spalle a chi entra e mostrando il retro di un importante copricapo: dietro di loro scivola uno strascico di tubi, qualcosa che sembra prezioso. Di altro segno il dialogo tra due abat-jour, ciascuno dal pulpito del comodino improvvisato che la sorregge. Un’atmosfera da inquisizione nella scena di alcune pesanti bocce costrette su un baldacchino in ferro sotto una luce che abbaglia e contro una tenda di ombre cucite. Ancora sensazione di costrizione e soffocamento ogni volta che una stoffa, un cuscino, qualcosa di morbido è bloccato nella crosta di vernice spessa e rigida che Stockholder gli ha costruito addosso.
Fin qui, appunto, un gioco: azzardare letture che sicuramente possono dirsi ingenue in una specie d’esercizio immaginativo che parte da cumuli poco decifrabili e non ha alcuna pretesa di essere condiviso. Ma assumere questo atteggiamento di fronte alle opere di Stockholder non significa ignorare il messaggio critico che l’artista costruisce attraverso di esse, né ammorbidire il suo attacco deciso a una società che non smette di circondarsi di cose superflue a cui è impedito di durare. Si tratta piuttosto di affiancare a un’interpretazione da sempre, e giustamente, attribuita al suo lavoro, la possibilità di relazionarsi in maniera ludica ma certamente non sterile, né superficiale. “Uso la materia come luogo di finzione, fantasia e illusione”, anche queste parole di Stockholder suggeriscono che interagire creativamente con le sue installazioni non vuol dire banalizzarle, travisarle oppure perdere, nella ricerca di una dimensione narrativa, il suo discorso politico e sociale. Nei suoi agglomerati, la narrazione, tutt’altro che assente, può dirsi apertissima e, allo stesso tempo, vincolata dalla riconoscibilità e dal carattere quotidiano della ‘materia’ a cui viene dato un nuovo significato. Proprio per questo la rilettura si fa interessante e densa di possibili risvolti, capace di far parlare tutto ciò che di solito rimane sullo sfondo dell’agire incollato a una funzione di poco conto e già consumata. Di più, per molti degli oggetti riutilizzati da Stockholder, c’è un forte carico semantico derivante da spazi e tempi del processo con cui sono stati accumulati: prima scelti, poi tenuti, per un periodo più o meno lungo nel suo studio o nel suo appartamento, molti di essi mostrano uno spessore che ne traduce i percorsi, una superficie resa ruvida dalle storie che l’artista vi ha proiettato. Non si tratta semplicemente di cose solite alterate dall’improbabilità di un assemblaggio, ma di luoghi stratificati in cui è possibile trovare l’appiglio, il trampolino di lancio per ulteriori, le più varie, significazioni.
Questo gioco, oltre a far rivivere in forme personalizzate l’universo critico allestito da Stockholder, può diventare il luogo dove la dimensione estetica del suo lavoro si svela nei modi più sottili e inaspettati. Qualcuno, chinandosi e abbassando la testa, potrebbe scorgerla ai piedi di un agglomerato difficile da affrontare in uno sguardo solo, dentro un vaso in ceramica di un giallo un po’ invadente, sulla parete interna, dove la ceramica si fa bianca e concava e c’è il disegno di una rondine minuscola. Meno di mezzo centimetro di tratto sottile e azzurro, la stilizzazione che farebbe un bambino, bastano a stravolgere un oggetto, a dotarlo di una strana forma di bellezza.
©CultFrame 06/2006
IMMAGINI.
1 Jessica Stockholder. Untitled #290, 1997
2 Jessica Stockholder. Untitled #339, 2000
INFORMAZIONI
Dal 25 maggio al 29 luglio 2006
Galleria Raffaella Cortese / Via A.Stradella 7, Milano / Telefono: 022043555 / Ingresso libero