Robert Altman, uno tra i più caustici, sferzanti, solitari e talentuosi registi americani del dopoguerra è morto all’età di ottantuno anni.
Si tratta di una figura centrale nella storia del cinema moderno, di un artista che ha saputo alimentare e sostenere con fermezza la sua carriera in un ambiente che non gli era così congeniale. Hollywood l’aveva sempre detestato, tanto che solo quest’anno gli era stato assegnato con ritardo un Oscar alla carriera.
La critica europea e i grandi festival invece avevano spesso evidenziato le sue capacità, il suo modo unico di raccontare attraverso il linguaggio audiovisivo.
Ciò che ricordiamo delle opere di Robert Altman è il grande rigore formale e la capacità di questo regista di rendere fluida e leggibile anche la più complessa delle strutture narrative.
Ma era il suo sguardo attento e impietoso sulla società e sui comportamenti umani a fornire ai suoi lungometraggi quello spessore che raramente si incontra in altri film di produzione americana. Altman era in grado di lavorare seguendo una sorta di eclettismo raffinato che lo spingeva di volta in volta a toccare diversi territori espressivi, dal film psicologico e alla violenta satira sociale, dallo sperimentalismo puro alla commedia.
Certamente è stato il maestro assoluto del film corale. Aveva la capacità, attraverso l’uso della macchina da presa, di delineare senza sbavature architetture narrative composte da innumerevoli personaggi e vicende. Ogni interprete una storia, in un intreccio incredibile di percorsi umani che andavano a ricomporre un quadro sociale e culturale molto nitido e quasi sempre desolante. In tal senso, i suoi capolavori sono certamente Nashville (1975), Un matrimonio (1978), I protagonisti (1992) e America Oggi (1993). Proprio quest’ultimo lavoro può essere considerato il vertice del suo percorso espressivo. Il film, che vinse il Leone d’oro a Venezia (ex aequo con Film Blu di Kieslowski), ha rappresentato una perfetta trasposizione filmica dei racconti di Raymond Carver, uno straordinario e drammatico affresco esistenziale di un paese come gli Stati Uniti pieno di angoscia, solitudine, frustrazione e incomunicabilità.
Tra le sue migliori pellicole: Anche gli uccelli uccidono (1970), MASH (1970 – Palma d’oro al Festival di Cannes), Tre donne (1977 – Premio per la migliore interpretazione femminile al festival di Cannes), Kansas City (1996).
Il suo ultimo lungometraggio Radio America (2006), lavoro praticamente perfetto per l’equilibrio dei toni e la direzione degli attori, è stato l’ultimo atto di una lucida analisi del sistema americano. Un film malinconico e ironico che ha chiuso in maniera egregia una grande esperienza cinematografica.
©CultFrame 11/2006
LINK