In una delle molte riflessioni sul conflitto mediorientale lo scrittore israeliano David Grossman afferma: «La nostra vita in Israele è segnata dalla violenza. La nazione è nata nella guerra e vive in uno stato costante di conflitto, minacciata dal terrorismo e deturpata dalla piaga dell’occupazione». Basta ascoltare il telegiornale di qualsiasi rete a qualunque ora o sfogliare un qualsivoglia quotidiano per rendersi conto di quanto le parole di Grossman siano tragicamente vere: il conflitto in Medio Oriente, come ha sottolineato Fabio Fazio, rischia di diventare un sottofondo delle nostre vite quotidiane. Un sottofondo a cui non si bada più. Ma, anche in condizioni costanti di guerra o di tensioni, l’apporto della fotografia può risultare indispensabile perchè, grazie alla sua iconicità, è capace di interrompere il flusso di informazioni visive per costringerci a fermarci per un attimo a riflettere. Di esempi ce ne sono a migliaia. Giusto per restare in tempi recenti, si può pensare al ritratto della “bambina afgana con gli occhi verdi” di Steve McCurry, una foto diventata popolare e che ha saputo comunicare in modo efficace le difficili condizioni di vita dei rifugiati nei campi profughi del Pakistan. Oppure, si possono menzionare le fotografie realizzate da Shirin Neshat sulle donne islamiche, immagini che hanno saputo esprimere la complessità del mondo musulmano.
La fotografa e videoartista di origine iraniana ha, infatti, creato dal 1993 al 1997 la serie fotografica Unveiled o Women of Allah molto nota in Occidente. La serie è composta da raffinate immagini in bianco e nero di donne islamiche coperte da pesanti chador neri; appaiono visi, mani, piedi istoriati con la scrittura calligrafica persiana e, spesso, giustapposti ad armi. La Neshat ha usato volutamente elementi altamente evocativi e, allo stesso tempo, ambigui per lasciare aperte più interpretazioni; per esempio: il velo rappresenta la volontà dell’uomo di controllare la donna, ma anche la possibilità per quest’ultima di essere rispettata e di non lasciarsi attrarre da eccessive occidentalizzazioni culturali; invece, le armi (simbolo della violenza) rappresentano da una parte l’immagine stereotipata che il mondo occidentale ha dell’Islam, dall’altra l’idea del corpo femminile nel suo essere militante, nel suo prendere posizione. Con Women of Allah Shirin Neshat voleva rappresentare le donne islamiche secondo un’immagine diversa da quella stereotipata occidentale: le sue donne non sono affatto immobili e passive, ma resistono e protestano.
Fra le varie interpretazioni suggerite dalle fotografie della Neshat c’è una lettura (quella della donna kamikaze), che viene esplicitata con l’accostamento fatto dalla casa editrice Mondadori fra un’immagine tratta da Women of Allah e un recente libro. La foto in questione è Rebellious Silente (1994) in cui si vede il ritratto a mezzo busto di una donna coperta da un pesante velo nero, mentre regge davanti a sé un fucile; la parte visibile del volto della donna è coperta dalle caratteristiche scritte calligrafiche persiane. Il romanzo su cui Rebellious Silente è apparsa come copertina è L’attentatrice di Yasmina Khadra. Nel libro Khadra – pseudonimo dietro cui si cela lo scrittore algerino Mohammed Molessehoul, ex ufficiale dello stato maggiore algerino – racconta la storia di Amin Jaafari. Amin è un chirurgo (di origine palestinese ma naturalizzato israeliano) che vive apparentemente integrato a Tel Aviv. Ma un giorno, dopo essere rimasto fino a sera inoltrata in ospedale a soccorrere i feriti dell’ennesimo attentato terroristico, scopre che sua moglie Sihem è morta nell’attentato e, soprattutto, che è stata lei la kamikaze. Da allora Amin non ha tregua fino a quando non scopre i motivi che hanno spinto Sihem (una donna intelligente, moderna, integrata) a una simile scelta. La dolorosa indagine di Amin lo porta nei meandri del sentimento di umiliazione provato dai palestinesi, come apprende amaramente da suo nipote Adel che gli pone brucianti domande: «Perchè vuoi che Sihem resti fuori dalla storia del suo popolo? Cos’aveva di più o di meno rispetto alle donne che si sono sacrificate prima di lei? È il prezzo da pagare per essere liberi…» (p. 205).
In libri precedenti Khadra-Molessehoul si era già occupato di fondamentalismo islamico (ambientandolo in Algeria, come accade in Cosa sognano i lupi?, o in Afghanistan, come accade in Le rondini di Kabul), ma questa volta lo scrittore algerino ha aggiunto qualcosa in più, perchè è riuscito a raccontare, come ha spiegato sulle pagine de Il Manifesto, «un conflitto individuale da maneggiare con la precauzione di un artificiere, ma fuori dalla contrapposizione arabo-israeliana e dai discorsi ideologici». Per capire quale sia il senso di una simile scelta si possono citare le parole dello scrittore Salman Rushdie: «i libri esistono, almeno in parte, per porre domande difficili. È una delle ragioni per cui esistono gli scrittori, e per cui gli scrittori sono spesso perseguitati. Percé dicono quel che la gente avrebbe preferito non dire. E uno dei modi in cui il mondo progredisce è attraverso le dispute sulle idee che vengono avanzate nella letteratura». Questo discorso vale senza ombra di dubbio per il romanzo di Khadra, ma vale anche per certi fotografi (come Shirin Neshat) e per certe fotografie (come Rebellious Silente).
©CultFrame 12/2006
IMMAGINE
Copertina del libro L’attentatrice di Khadra Yasmina. Fotografia di Shirin Neshat
CREDITI
L’attentatrice / Autore: Khadra Yasmina / Immagine copertina: Shirin Neshat / Traduttore: Bellini M. / Editore: Mondadori, 2006 / Collana: Strade blu / 232 pagine / 15,00 euro / ISBN: 8804559233
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