Nakazora. A box of Ku. Mostra di Yamamoto Masao

SCRITTO DA
Laura Ferrari

yamamoto_masao1L’installazione di Masao Yamamoto in mostra alla Galleria Carla Sozzani, nel suo piccolo è qualcosa di eccezionale. Sostiene l’autore: “credo che il mio lavoro avrebbe poco da dire se potesse essere perfettamente spiegato con le parole”. Ed è proprio così, non c’è altro modo: va vista, perché rappresenta un piccolo miracolo nel panorama della fotografia contemporanea. Va vista perché è una boccata d’aria fresca, soprattutto in un paese (il nostro) in cui sempre più spesso le dimensioni di ciò che viene appeso alle pareti sembrano contare più di ciò che vi è realmente impresso. Va vista perché è una cosa preziosa.


A box of Ku (una scatola di nulla, di cielo, o di spazio, a seconda delle diverse possibili letture del carattere “ku”) è il titolo con cui ha iniziato negli anni ’90 questa serie continua di fotografie seguita dalle più recenti di Nakazora: l’intervallo tra terra e cielo, il vuoto, un altro contenitore, un confine da non riempire.

Finalmente qualcosa che porta naturalmente il visitatore vicino alla fotografia, con un passo materiale da compiere e il naso quasi attaccato alla parete, come se si guardasse dentro tanti piccoli buchi scavati nel muro e ciascuno desse su una porzione di mondo: perché le stampe sono quasi tutte delle stesse dimensioni del negativo, quindi piccolissime.

Yamamoto ci riporta alle dimensioni “reali” del fotografico; e lo fa con una semplicità disarmante. Con estremo rispetto e nessuna pretensione. Ci costringe a vedere, prima ancora che a pensare se c’è qualcosa da capire; ci impegna a tal punto la vista da rendere stupefacente anche il solo perdersi in un pezzo di carta di sei centimetri per sei, quando non più piccolo, senza vetro e senza cornice, e dove per giunta sembrerebbe non esservi rappresentato nulla di eccezionale.

Sono piccole banalità che sfiorano il sublime; tanto che il punctum non è più ravvisabile in un eventuale e involontario particolare interno alla foto, ma arriva a coincidere con il fotogramma stesso, che pertanto perde il suo carattere di medium e si fa visione trasparente, un ritaglio di esperienza.


Stampe di dimensioni lillipuziane e scenari vastissimi: un ossimoro spaesante, perché nonostante la concentrazione dimensionale i paesaggi risultano amplificati, non sminuiti, provocando un intenso senso di vertigine; è allora che ci accorgiamo che siamo noi a trovarci dentro una scatola…

yamamoto_masao2Ma qui il punctum, che Barthes ricorda significare anche “puntura, piccolo buco, macchiolina, piccolo taglio”, sembra sorprendentemente coincidere altresì con la ferita effettiva e stavolta intenzionale affiorante più o meno in tutte queste fotografie, che si presentano infatti spiegazzate, dai bordi consunti e dalle mascherature evidenti, graffiate o capovolte; e ancora inquadrature non rigorose e immagini fosche al limite del leggibile, ma perfette nel loro equilibrio e nella loro voluta microscopica approssimazione.
Un intervento grafico minimale ma molto potente nell’insieme: che, ben lungi dal richiamarsi a una sfera informale di tortura della materia, si afferma piuttosto come traccia non connotabile, opaca, non significante eppure figurativamente indispensabile. Le screpolature, le pieghe, le incisioni sono discrete, a volte appena individuabili; sono quasi degli omaggi, dei piccoli regali che l’artista fa alle proprie opere prima ancora che sia il tempo a depositarvi le sue incrostazioni. Si direbbe anzi per prevenirle: con una raffinatezza e una premura commovente e misurata.

Accostate poi sulle superfici della galleria in gruppi irregolari e senza nessi evidenti fra di loro, cellule di un montaggio in continuo divenire, danno vita a loro volta a nuove inattese deflagrazioni poetiche, in stretta parentela con l’antica tradizione letteraria giapponese degli haiku: sospesi nella stessa aura di leggerezza e mistero in cui la natura è motivo preponderante, la sinestesia interseca alle impalpabili apparizioni un brusio di profumi e tonalità che non toccano mai fino in fondo il colore, e che non sono mai puro e semplice bianco e nero.

Ed è un procedimento che ritroviamo fino nella confezione dell’oggetto libro, anch’esso completamente ripensato: a fisarmonica o in forma di rotolo, quindi di fatto senza pagine, per riproporre il continuum visivo che caratterizza l’architettura dell’installazione, coinvolgendo il fruitore ancora una volta ma privatamente nella ludica azione combinatoria.


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Così come gli haiku -sempre secondo Barthes- vanno sottratti al processo di significazione proprio della cultura occidentale, l’importante alla fine è che anche questo insieme volubile di immagini, leggere come tessere di un tangram, non debba avere l’obbligo di simbolizzare qualcosa, di essere riducibile a un senso o a una traduzione.

Kisato Kusano è riuscito a rendere tuttavia l’essenza di queste impressioni con un’analogia che coglie nel segno: silenzio, dice, non è totale assenza di suoni, ma è quello stato particolare in cui le sottili vibrazioni che non cogliamo normalmente sono percepite in maniera irregolare in uno spazio più ampio. È un silenzio così forte che ferisce.

Ma è una ferita leggera, alla portata di tutti.


©CultFrame 10/2007

 

 

IMMAGINI

©Yamamoto Masao


INFORMAZIONI

Dal 9 settembre al 28 ottobre 2007

Galleria Carla Sozzani / Corso Como 10, Milano / Telefono: 02653531

Orario: martedì, venerdì – domenica 10.30 – 19.30 / mercoledì e giovedì 10.30 – 21.00 / lunedì 15.30 – 19.30 / Ingresso libero

 

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Galleria Carla Sozzani, Milano

 

 

 

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