Mother Economy. Un video di Maya Zack

SCRITTO DA
Maurizio G. De Bonis

Uno dei territori di ricerca ed esplorazione critica all’interno del quale CultFrame ha spesso operato è senza dubbio quel settore dell’arte contemporanea in cui la compenetrazione dei linguaggi appare come il dato fondamentale concettuale/compositivo. Da tempo, in occasione di Biennali e appuntamenti internazionali si assiste alla proliferazione di un versante espressivo nel quale la dimensione del video si trasforma in una sorta di rinnovata e ibrida comunicazione di stampo filmico. Il cinema, dunque, nutre territori “alinguistici” come il video, ma allo stesso tempo la libertà dello strumento video finisce per spingere all’elaborazione di una nuova e sempre più viva struttura che utilizza la forza linguistica del cinema, l’idea di regia e sceneggiatura, l’attenzione per la cura della fotografia, proiettando tale forza in un universo creativo perfettamente meticcio, anche per ciò che riguarda la fruizione dell’oggetto artistico.
Autori emblematici in tal senso sono certamente Matthew Barney e Peter Greenaway, artisti/registi/autori di opere fruibili indifferentemente in ambito cinematografico e/o artistico, artefici di film “altri”, fuori da ogni schema e codice precostituito. Se dovessimo individuare una figura che si innesta attraverso la sua personale produzione nel solco già tracciato da Barney e Greenaway, non potremmo fare altro che citare l’israeliana Maya Zack.

Si tratta di un’artista (nata a Tel Aviv nel 1976) che possiede una poetica già fortemente riconoscibile, pur essendo inequivocabili le influenze dei due autori sopra citati. Maya Zack si è da poco tempo aggiudicata il Celeste Kunstpreis a Berlino (un premio in denaro di ben 12.000 euro).


Il lavoro con il quale ha acquisito questo prestigioso riconoscimento è intitolato Mother Economy e rappresenta un esperimento molto raffinato che percorre il confine sottile tra cinema sperimentale e opera video/concettuale. Se nel precedente Meme 1, Maya Zack si ricollega (non sappiamo quanto volontariamente) all’estetica di Matthew Barney, in Mother Economy l’artista israeliana conquista una propria identità che affonda le sue radici in un’impostazione visuale più chiaramente cinematografica.
La sceneggiatura, scritta insieme a Ytzchak Roth, è basata sull’organizzazione visiva delle azioni di una donna-casalinga, all’interno di una casa ebraica probabilmente durante l’avvento del nazismo. Il tessuto concettuale del breve film (meno di 20 minuti) è solido e costruito sulla consequenzialità di alcuni gesti molto precisi, quasi matematici, effettuati dal personaggio centrale. La donna, in uno stato di trance-meccanica, si muove, organizza, effettua calcoli, riflette, cerca, elabora. Il tutto in una dimensione temporale sospesa, quasi astratta, nonostante gli atti della protagonista siano concreti. Ciò determina una sensazione di straniamento in chi guarda, ma anche la percezione di una atroce realtà storica che sta per abbattersi sulla pura perfezione di piccoli precisi fatti quotidiani che rappresentano un mondo di tradizioni, abitudini, ruoli.


Maya Zack è artista molto sensibile, proprio perché non perde mai di vista il senso della sua opera. E per far ciò si affida in maniera netta all’articolazione del linguaggio audiovisivo. La sua cifra stilistica è sostanzialmente geometrica e ha a che fare con il sezionamento dello spazio scenico. La macchina da presa diviene una sorta di bisturi del campo visibile, si muove spesso attraverso carrellate orizzontali e si concentra su dettagli che fanno emergere brevi sintetiche azioni della protagonista. In Mother Economy l’inquadratura ricorrente è quella in cui la m.d.p. è posta a piombo/verticale e inquadra dall’alto, attraverso movimenti fluidi e lenti, l’azione. Non sembra un’inquadratura casuale questa, poiché risulta fin troppo significativa nell’architettura registica dell’opera. E’ anzi un’inquadratura inquietante e angosciosa che esalta la solitudine del personaggio centrale, pur nella realtà protettiva della casa, solitudine amplificata da una sorta di algida e distaccata istanza narrante che guarda tutto dall’alto e che forse allude non solo al distacco tra universo umano e universo metafisico, ma probabilmente evidenzia la sostanziale drammatica assenza di una componente metafisica nell’ambito del concetto di esistenza.


© CultFrame 05/2008

 

IMMAGINI

© Maya Zack. Mother Economy. Still dal video

CREDITI

Video: Mother Economy / Regia: Maya Zack / Script: Ytzchak Roth, Maya Zack / Montaggio: Amos Ponger / Fotografia, luci, effetti visivi: Stanislav Levor / Musiche: Ophir Leibovitch / Costumi: Maya Zack / Performer: Idi Neuderfer / Fomato: 16:9 / Produzione: Ytzchak Roth / Anno: 2009 / Durata: 19.45 minuti

 

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Maurizio G. De Bonis

Maurizio G. De Bonis è critico cinematografico e delle arti visive, curatore, saggista e giornalista. È direttore responsabile di Cultframe – Arti Visive, è stato direttore di CineCriticaWeb e responsabile della comunicazione del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani. Insegna Cinema e immagine documentaria e Arti Visive Comparate presso la Scuola Biennale di Fotografia di Officine Fotografiche Roma. Ha pubblicato libri sulla fotografia contemporanea e sui rapporti tra cinema e fotografia (Postcart), sulla Shoah nelle arti visive (Onyx) e ha co-curato Cinema Israeliano Contemporaneo (Marsilio). Ha fondato il Gruppo di Ricerca Satantango per il quale ha curato il libro "Eufonie", omaggio al regista ungherese Bela Tarr. È Vice Presidente di Punto di Svista - Cultura visuale, progetti, ricerca.

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