Due immagini pubblicate sul quotidiano La Repubblica del 7 dicembre 2008 mi impongono una riflessione civile sul rapporto tra fotografia, massmedia e informazione.
Una è collocata in prima pagina ed collegata a un articolo intitolato “Gordon Brown: Cacciamo Mugabe – Zimbabwe, il colera fa strage”. Un uomo, presumibilmente africano, è seduto in un letto di ospedale. Beve da una tazza arancione, dal polso esce fuori la cannula di una flebo. Il volto si vede perfettamente, dunque è riconoscibile in modo molto preciso.
L’altra si trova a pagina 15 ed è connessa a un pezzo intitolato “Dilaga il colera in Zimbabwe, Mugabe deve lasciare il potere”. In questa immagine, con tanto di didascalia in cui si afferma che “la donna col suo bambino chiede la carità”, è ritratta una giovane mentre, prostrata su se stessa, tiene in mano una ciotola con del denaro. Per quanti sforzi abbia personalmente fatto il bambino non si vede, probabilmente è visibile nella parte alta dell’inquadratura, tagliata in fase di composizione della pagina.
Per quel che riguarda entrambe le fotografie, non viene indicato l’autore e neanche l’agenzia che le ha fornite. A pagina 15 sono solo evidenziate in alto a destra dei link “per saperne di più”.
Da studioso della fotografia contemporanea e dei suoi utilizzi nel mondo dell’informazione non posso che pormi dei problemi, a mio avviso, molto seri.
Partiamo dalla fotografia pubblicata in prima pagina. La privacy della persona ritratta potrebbe non essere stata tenuta in considerazione. Perché mai sulla prima pagina di un grande quotidiano nazionale debba comparire il volto riconoscibile di una persona malata e indigente? Personalmente penso che una fotografia di un individuo bianco malato, magari italiano, in un letto di ospedale non si sarebbe mai potuta pubblicare, almeno senza la firma di una liberatoria da parte del soggetto in questione. A costo di sembrare ingenuo, spero (per l’attaccamento che ho nei riguardi di un quotidiano che leggo ogni giorno da trenta anni) che questa liberatoria esista e che la persona ritratta nell’immagine sia stata informata sulla possibilità dell’eventuale divulgazione del suo volto su un giornale che leggono centinaia di migliaia di persone. Posto ciò, mi domando se sia eticamente accettabile che la figura di una persona africana e nera possa essere utilizzata in maniera così superficiale. È una questione di delicatezza e di sensibilità che deve essere messa davanti a qualsiasi esigenza informativa. Non si tratta di moralismo, e neanche di desiderio di censura, quanto piuttosto di uno spirito di solidarietà umana che non può, a mio avviso, essere dimenticato quando si affrontano temi come la malattia, il disagio, la povertà.
Per quel che concerne la seconda, il discorso è simile, anche se il “presunto” bambino fortunatamente non si vede e il volto della donna non è perfettamente visibile. La sostanza etica però non cambia, semplicemente per il fatto che l’immagine di una persona indigente che chiede soldi per strada (di quale città non si sa) è accostata a un titolo che sottolinea il dilagare del colera in Zimbabwe. Fermo restando che nessun ammalato/povero debba apparire senza la sua autorizzazione, in una foto giornalistica, mi domando come mai la figura ritratta sia relazionata al problema del colera in Zimbabwe. Mi (vi) domando: lo scatto è stato realmente effettuato in Zimbabwe? La persona ritratta soffre di questa malattia? Quando il fotografo ha scattato, ha parlato con la donna? Ha interloquito con un medico che la cura? Ha cercato di capire chi fosse ed ha cercato di aiutarla?
Ebbene, la riflessione che ho con voi condiviso su queste due fotografie, fatalmente mi costringe di nuovo a parlare delle problematiche relative al fotogiornalismo, area del fare fotografia che sembra totalmente immune da possibilità di critica, oggettiva e democratica.
Fotografare la malattia, la povertà e la sofferenza è una pratica molto delicata che comporta una responsabilità etica da parte di chi scatta e da parte di pubblica. Sempre più spesso vedo sui nostri organi di informazione immagini come quelle pubblicate da La Repubblica, immagini quasi sempre non corredate da firma dell’autore e da indicazione dell’Agenzia (dunque risulta impossibile qualsiasi tentativo di verifica). Ma l’aspetto che più mi fa pensare riguarda l’automatismo editoriale che prevede l’uso di queste immagini in contesti a volte non pertinenti. Ripeto: le due persone nere immortalate nelle immagini di cui ho parlato (non essendo personaggi pubblici) sono state informate dell’utilizzo di queste foto? Erano al momento consapevoli che un fotografo li stava ritraendo? Sono in qualche modo collegate agli argomenti degli articoli? Si è tenuto conto all’atto della pubblicazione della questione del rispetto del dolore altrui? Si è cercato di evitare che le persone ritratte diventino solo esempi, ad uso occidentale, di una povertà “solo africana”?
Mi pongo queste domande, con il massimo rispetto per il mondo dell’’informazione e per tutte le testate giornalistiche italiane, nonché per tutti quei fotogiornalisti che impegnano la loro vita nella “documentazione” della sofferenza del mondo. Il mio è solo un sommesso pacato invito, pieno di dubbi, a pensare bene al valore della documentazione fotografica del disagio umano.
Ciò che conta, per quel che mi riguarda, è il diritto/dovere all’informazione e alla libertà di espressione/stampa nel rigoroso rispetto, però, della dignità delle persone.
© CultFrame 12/2008