Due o tre cose che so di lei (Deux ou trois choses que Je sais d’elle) è un film del 1967, diretto da Jean-Luc Godard. Si tratta di un’opera estremamente significativa non solo per le implicazioni ideologiche, tuttora aderenti alla realtà sociale ed economica che stiamo vivendo, ma anche per le articolazioni linguistiche attraverso le quali Godard è riuscito a mettere a fuoco il rapporto tra la società capitalistica (oggi in gravissima inevitabile crisi) e l’immagine.
Il ragionamento organizzato visivamente del grande regista francese è altresì applicabile alla condizione contemporanea del cineasta e del fotografo. Una questione appare centrale: il cinema e la fotografia degli ultimi trenta anni di XX secolo e di questo primo scorcio di XXI secolo sono ovviamente forme espressive basate sul concetto di inquadratura (come è da sempre). Tale concetto rischia di divenire inutilmente ridondante poiché risulta ormai solo una sorta di contenitore stracolmo di immagini. Per immagini intendiamo tutti quei segni visivi che la società dei consumi utilizza per condizionare il cittadino e per indurlo, come sostiene Godard, alla prostituzione, non solo del corpo ma anche della mente. Gran parte del cinema e della fotografia degli ultimi anni è densa (fin troppo) di immagini, cioè di segni ripetitivi a cui lo sguardo del cittadino è totalmente assuefatto. In sostanza, tutti noi abbiamo sviluppato una vera e propria dipendenza dalle immagini. È un dipendenza virulenta (tossica) che allo stesso tempo ossessiona e rassicura, trasportando il fruitore in quella dimensione consumistica che serve al “potere economico” per portare avanti i suoi affari.
Il discorso godardiano, perfetto per il 1967, diviene nel 2008 una sorta di lente di ingrandimento della situazione attuale. Ogni inquadratura cinematografica e fotografica sembra non poter esistere senza questa connessione con il mondo del consumo, del commercio e della prostituzione sociale generalizzata.
Il problema di chi si esprime attraverso un linguaggio basato su inquadrature è quello, dunque, di tentare di liberarsi dalle immagini imposte dal potere economico (che non è disgiunto da quello politico) per rompere la gabbia di un linguaggio che non è più frutto di un pensiero libero ma solo dell’applicazione inevitabile di stilemi schematici che inducono alla prostituzione (per altro inconsapevole, quindi non frutto di una scelta razionale) del corpo, della mente, del pensiero e anche dello sguardo.
Fondamentale in questo ragionamento è l’ambiguo ricatto del rapporto con la realtà. Chi si ostina a sostenere il legame diretto delle inquadrature cinematografiche e fotografiche con il reale non riesce evidentemente a comprendere come il reale (a livello visivo) sia conseguenza diretta del sistema artificiale delle immagini consumistiche. In fotografia ad esempio anche quegli scatti che intendono avere una valenza politico-sociale risultano fatalmente connessi a una rigida architettura di comunicazione che ha finito per generare un mercato consumistico della fotografia di denuncia che vorrebbe raccontare/divulgare le brutture del mondo. In verità, la stragrande maggioranza dei fotografi non fa altro che perpetuare stereotipi vendibili, dunque oggetti linguistici pensati e realizzati per alimentare il meccanismo perverso legato alla vendita generalizzata e sistematica dello stesso identico oggetto.
Il film di Godard rappresenta in tal senso un insegnamento per chiunque voglia esprimersi attraverso linguaggi visivi come il cinema e la fotografia. Due o tre cose che so di lei è un esempio pratico di analisi critico/visiva basata sul valore delle inquadrature cha appaiono componenti di un discorso libero da condizionamenti. I primi piani controluce di Marina Vlady, gli sguardi in macchina, il frazionamento aspro del racconto, le improvvise incursioni dell’obiettivo cinematografico sulla città in continua costruzione/disfacimento sono tutti fattori che liberano il cinema (le arti visive) dalle immagini.
Prendendo spunto dal capolavoro godardiano, forse è possibile concepire oggi una “fotografia senza immagini”, cioé una fotografia liberata dalla prostituzione dello sguardo messa in atto da quegli autori che scattano in base a ciò che il mercato richiede loro e che stimolano meccanicamente lo sguardo del cittadino borghese/consumista/qualunquista (dunque potenzialmente razzista, reazionario e xenofobo) confortato dagli stilemi imposti da chi detiene le leve del potere politici/economico.
Una fotografia fuori da questa gabbia di immagini preconfezionate potrebbe generare uno sguardo nuovo e vero, una rinnovata forma linguistica forse autenticamente vicina alla realtà.
© CultFrame 12/2008