La realtà è quella di un piccolo agglomerato di roulotte e prefabbricati sito in una specie di parcheggio per autocarri lungo la Route 22; intorno boschi.
Il luogo non è troppo distante da New York, città che nel nostro immaginario è sinonimo di agiatezza e cultura, al più di quartieri suburbani pericolosi dove nascono e proliferano però subculture che danno luogo a fenomeni artistici di strada e aggiornate tendenze musicali. Ma Oniontown (si chiama così questo coacervo di strutture abitative) non aderisce affatto agli stereotipi di un‘America, ancora “favolosa” per certi versi, che ci vengono solitamente propagandati.
I suoi abitanti – che vivono di assegni di sostentamento e pensioni di invalidità, coltivando la terra, cacciando e allevando animali – godono di una pessima fama, corroborata dagli stupidi video pubblicati su YouTube da ragazzotti in cerca di avventura: una nomea di poveracci selvatici, incestuosi, ritardati e violenti; di una tribù asociale di straccioni, quasi un’etnia a sé.
E’ invece un luogo senza tempo e senza precise connotazioni geografiche – se non fosse per i tenui riferimenti di una bandiera, di una scritta o di un malridotto souvenir – quello che ci racconta Nadia Shira Cohen in un reportage, che ha vinto il secondo premio all’ultimo Fotoleggendo e si è classificato fra i finalisti a Portfolio Italia 2008, in questi giorni esposto a Roma presso la B>Gallery di Piazza S. Cecilia a Trastevere.
Alla prima occhiata i suoi scatti richiamano alla mente altri reportage e altre situazioni: le baraccopoli di un qualche miserrimo est europeo già visto nei lavori di altri fotografi, o magari un campo nomadi: sarà per via del soggetto, sarà per via di una certa interpretazione “coloristica” che pare al giorno d’oggi un must nell’espressione fotografica di un particolare disagio sociale caratterizzato dall’arretratezza e dalle difficoltà economiche, ma forse la dobbiamo più agli stampatori che ai fotografi.
A ben guardare queste grandi immagini appese alle pareti di un ampio e ben illuminato spazio espositivo che le valorizza, più che una problematica quotidianità ci trasmettono l’approccio della fotografa a questa gente: il suo sguardo curioso e desideroso di capire, al di là di ogni pregiudizio, che ad un certo livello siamo tutti uguali. E’ questo il livello degli affetti e dei bisogni più veri.
Cohen ce lo racconta con grande delicatezza e, per meglio riuscirvi, lo fa molto spesso attraverso la spontaneità dei bambini, ma questa scelta confonde un poco il visitatore, incerto sulla vera natura di questo lavoro, parte orientato al discorso sociale contingente, parte più genericamente verso la rappresentazione di una infanzia complicata.
Le didascalie, che accompagnano puntualmente ogni fotografia, tentano di chiarire l’enigmaticità di alcune foto, ma a volte le fanno purtroppo apparire fragili nel senso e persino ridondanti.
Nondimeno si resta colpiti da alcune immagini, più riuscite in quanto ricche di elementi in cui trovare, infine, non come ci si sarebbe aspettati i segni di un’incipiente povertà, ma quelli di un inconsapevole degrado culturale, che si traduce in una emarginazione contro cui lottare proprio portando la “normalità” di questa gente dinnanzi agli occhi del mondo.
Un discorso chiaramente caro a Nadia Shira Cohen, la quale oltre che nella sua attività di fotogiornalista è impegnata nel sociale insieme ad alcune ONG.
©CultFrame 01/2009
IMMAGINE
Fotografia di Nadia Shira Cohen
INFORMAZIONI
Oniontwon – Fotografie di Nadia Shira Cohen
Dall’8 genaio al 23 gennaio 2009
b>gallery / Piazza Santa Cecilia 16, Roma / Telefono: 0658334365
Tutti i giorni 10.00 – 22.00
Ingresso libero
Cura: Giammaria De Gasperis, Valeriano De Gasperis
LINK