Paolo Gioli è uno dei più importanti fotografi e autori cinematografici indipendenti internazionali oggi in attività. Ha esposto i suoi lavori ad Arles, Venezia, Firenze, Roma, e al Centre Pompidou di Parigi. Da molti anni ha stretto un sodalizio professionale con Paolo Vampa, promotore e produttore del suo lavoro foto-cinematografico.
La 45a Mostra Internazionale del Cinema Nuovo di Pesaro ha ospitato nel giungo 2009 una sua retrospettiva cinematografica, curata dal critico e docente Giacomo Daniele Fragapane, e una tavola rotonda nell’ambito della quale vari studiosi hanno evidenziato la particolarità del lavoro di Paolo Gioli.
L’intervista che pubblichiamo è un estratto di un’ampia conversazione tra Poalo Gioli e Giacomo Daniele Fragapane, pubblicata integralmente sul catalogo della 45° Mostra Internazionale del Cinema Nuovo.
Quello che vorrei fare in questa intervista è mettere in luce, per quanto possibile, la logica dei tuoi processi creativi. Inizierò con una domanda piuttosto ovvia, ma che credo rechi in sé una grande complessità di possibili percorsi. Jean-Michel Bouhours ha scritto che nel tuo lavoro «l’immagine non è più l’analogon della cosa rappresentata quanto la metonimia […] di un processo mentale». Il tuo cinema – così come buona parte della tua fotografia – difficilmente rientra nella categoria della “rappresentazione” o della “narrazione”; sembra invece svilupparsi come un processo di “esplorazione” (termine che tu usi di frequente) di un’idea. Come se quell’idea, spesso molto tecnica, oppure legata all’agire quotidiano, una volta messa in moto non potesse che produrre, quasi automaticamente, quel film. E allora qual è, di norma (se c’è una norma) la genealogia di una tua idea? Come si manifesta la prima volta, e come si evolve nel tempo?
È complicato rispondere, perché ogni mio lavoro parte da pretesti diversi. Per esempio, è molto importante il contesto letterario. Quello che leggo, i titoli soprattutto, ma anche qualsiasi frammento che posso trovare in un testo letterario. Spesso parto da una frase: tu mi dici una frase e io ci faccio un film. Oppure una parola, ad esempio “foglia” o “vita”… “Vita e morte di una foglia” potrebbe essere il titolo. Allora io posso aspettare un’intera stagione: non è che vado a staccare una foglia per farla cadere, ma aspetto che si dissolva, che vada in consunzione. Detto così sembra la prima cosa che mi è venuta in mente, invece coincide con quella che è una mia visione della natura e delle stagioni. Dunque è importante il contesto letterario o il fatto che si inneschi un’associazione di idee. Ad esempio ieri sono stato in un laboratorio di sviluppo e stampa di pellicola cinematografica, per dare istruzioni su alcuni lavori che sto facendo, tra cui un film intitolato Interlinea; da una sorta di pattumiera che hanno, dove gettano gli spezzoni inutilizzati, i materiali di scarto, ho tirato su un frammento di pellicola 35mm colore e guardandolo con un lentino mi è venuto in mente che potrei reinquadrarne delle parti, osservando quello che c’è tra i fotogrammi; e così ho anche immaginato un ipotetico titolo, ossia “fuori-quadro”, che poi sarebbe esattamente la prosecuzione di Interlinea. Dunque siamo dentro la materia del film, della pellicola, del supporto, prima ancora che si adagi, che si depositi sopra un’immagine: spesso il pensiero di dover mettere io le immagini mi distoglie, in certi casi considero una fortuna, un lusso poter lavorare su un supporto che ha già dentro delle immagini anonime, fatte da un altro. Insomma in questo caso ho immaginato di spostarmi dall’interlinea, di andare fuori quadro – un po’ come accade al cinema quando la pellicola non è bene allineata nel proiettore e qualcuno nel pubblico grida: “quadro!” – ed esplorare la materia, la grana, scoprire cosa c’è dentro e poi solo alla fine tornare all’ordine, al quadro, e svelare perché ero fuori-quadro. Non so se ho risposto alla tua domanda: in effetti forse sono andato io “fuori-quadro”.
No, piuttosto mi sembra che mi hai dato più di una risposta. Nel senso che mi hai detto che un tuo film può nascere da una cosa che hai letto, da un’immagine non tua, oppure da un gioco di parole ecc. Ma soprattutto dalla prosecuzione del tuo lavoro.
È così in maniera inconscia, in effetti, ma in genere lo scopro dopo.
Allora vorrei capire meglio innanzitutto come si intrecciano questi diversi aspetti, e poi, dal momento che c’è una dimensione produttiva per certi versi “inesauribile” nel tuo modo di procedere, come capisci che un tuo lavoro è finito, che un film è chiuso.
Da una ragione banale che in realtà si porta dietro una riflessione, invece, molto più complessa: perché, lavorando in pellicola piuttosto che in video – e qui ci sarebbe da fare un discorso lunghissimo e molto polemico – so fin dall’inizio che ho a disposizione una certa durata, mettiamo cinque minuti, e che all’interno di quella durata non posso sbagliare e devo mettere tutto quello che ho immaginato. Ho ripetuto un’infinità di volte che per me il digitale è paragonabile a una “gomma per cancellare”, a qualcosa che ti consente sempre di tornare indietro e rifare, mentre con la pellicola è come usare una stilografica: alla fine se hai fatto hai fatto, se hai sbagliato hai sbagliato. In questo senso non penso che il digitale abbia arricchito molto i processi creativi, proprio perché introduce la possibilità di cancellare. Se col digitale tu puoi fare una quantità infinita di varianti e solo alla fine scegliere quella che ti convince di più – e questo secondo me ti porta a lavorare in un modo molto più approssimativo –, lavorando con la pellicola invece devi seguire un processo molto più preciso, sei costretto a ipotizzare una serie di possibili soluzioni mentali – dieci, venti, cinquanta – per poi realizzare quella che ti convince di più solo una volta che ti sei deciso. Se lavori in video, secondo me ti devi allenare per assumere lo stesso atteggiamento: procedere come se avessi una sola possibilità, come se avessi una sola batteria che si sta scaricando, ad esempio, per avere una visione esatta di quello che vuoi e mantenere alto il livello di concentrazione su ciò che fai.
E questo significa anche avere un determinato approccio nei confronti del soggetto? (utilizzo questo termine in un’accezione piuttosto ampia, dal momento che molti tuoi film non hanno un vero e proprio “soggetto”). Roberta Valtorta ha parlato di una costante «teatralizzazione» del soggetto nella tua opera, di una sua drammatizzazione attuata per mezzo della messa in posa o di altri espedienti (penso all’uso che fai della cornice, degli schermi che inquadrano altri schermi, o a come metti in crisi ed evidenzi al contempo, mediante raddoppiamenti speculari o slittamenti del fotogramma, quel luogo massimamente “teatrale” dell’immagine che nella tradizione occidentale è sempre stato il centro del quadro). In che misura questi procedimenti “teatralizzanti” incidono sul tuo modo di fare cinema? Ci sono differenze rispetto al tuo approccio alla fotografia?
Sì, certamente ciò che io mostro non è mai una cosa “colta al volo”, come fanno i fotoreporter ecc.; la medito sempre per conto mio, ci torno sopra a più riprese, con pause lunghissime. In questo senso devo dire che io non amo sperimentare, anzi la definizione stessa di “cinema sperimentale” mi sembra assurda o vecchia (un’altra definizione che odio è quella di “cinema d’artista”, che fa pensare a un pittore che si mette a fare i film). Le mie sono opere compiute, non sono esperimenti! Sembra quasi che io dopo tutti questi anni sono ancora lì che provo per vedere cosa salta fuori, che faccio esperimenti senza sapere se quello che sto facendo riuscirà: e invece è ovvio che quello che faccio deve riuscire, perché per il settanta per cento è tecnica, e per il resto – se ce l’hai o no è un’altra questione – è talento o creatività pura. Io non posso accettare l’eventualità di dovermi bloccare, se mi viene in mente una cosa, perché non so farla. Ma scherziamo? In due secondi, anche solo con un pezzo di cartone e delle forbici, devo buttarmi subito e trovare un modo per farla. Tecnicamente non ho problemi, faccio qualsiasi cosa. Il punto non è mai trovare la tecnica; il punto è cosa ti viene in mente, cosa vuoi fare, che direzione prendere. Conosco uno che non ha mai ripreso il sesso femminile. Eppure è molto bravo e sarebbe perfettamente in grado di ricavarne qualcosa di interessante. Ma non lo vuol fare. Io al contrario per principio non escludo mai niente, filmerei ogni angolo, soprattutto quelli in cui si raccoglie la polvere. Comunque, per tornare alla tua domanda, è evidente che in ogni cosa che faccio c’è sempre tutta una preparazione. Anche se semplicemente sto riprendendo qualcuno per fargli un ritratto, solo per il fatto di dirgli “mettiti lì”, di parlargli, o di scegliere e preparare un luogo, sto in qualche modo teatralizzando quella situazione, ma questo è un fatto che ha a che fare con la vita più che con il cinema o la fotografia. Certo, non cerco di farlo rilassare, di farlo sembrare naturale: anzi, per me più è teso, più è insicuro o a disagio, meglio è, tanto poi tutto finisce: mica sto facendo sul serio, è solo un’immagine che devo ricavare.
Mi sono segnato un tuo commento al film Immagini travolte dalla ruota di Duchamp, dove dici: «Su Duchamp mi sentirei di fare un film su ogni sua opera perché mente, ironia e alchimia sono proprie del cinema». Al di là dell’omaggio a uno dei più importanti artisti del novecento, questo mi sembra anche un bel modo per descrivere il tuo approccio al cinema. Vuoi parlare di questa dimensione duchampiana del tuo lavoro?
A me piacciono molto le cose laddove sono complicate, dove c’è una sfida. Ho fatto dei film togliendo l’otturatore dalla mia cinepresa e utilizzando degli otturatori esterni: ad esempio la mia stessa mano, oppure, come nel caso del lavoro su Duchamp, una ruota di bicicletta. In effetti avrei voluto mostrare il risultato a Duchamp per vedere come avrebbe reagito, perché se ci pensi la ruota è un otturatore: basta oscurare i raggi lasciando delle fessure e farla girare davanti alla cinepresa; se la cinepresa non ha l’otturatore puoi decidere la velocità dell’otturazione facendo girare la ruota più o meno velocemente, come si faceva nei baracconi del tiro a segno alle fiere di paese. Trovo interessantissimo il fatto che un’opera finita sia poi diventata parte di un’altra opera: come avrebbe potuto immaginare Duchamp che la “sua” ruota sarebbe diventata un otturatore utilizzato per girare un film? Lo stesso discorso potrei farlo per Duane Michaels e per tanti altri che ho utilizzato per il mio lavoro, cercando di mostrare che dentro le loro opere si nascondevano infinite possibilità di realizzare cose del tutto diverse, mentre magari – ed è qui l’ironia – loro pensavano al proprio lavoro come qualcosa di compiuto, di chiuso. Tu immagini ad esempio che l’ultima destinazione di una fotografia sia di depositarsi, sotto forma di inchiostro, sulle pagine di un libro. E invece no: io animo l’inchiostro e quell’immagine comincia a muoversi, diventa un film. E lo stesso vale per la ruota: non è più un oggetto inerte, a sua volta produce immagini perché io l’ho trasformata in un otturatore simile al disco di Étienne-Jules Marey.
Ma c’è un altro aspetto dell’approccio di Duchamp che mi fa pensare al tuo lavoro. Duchamp sapeva bene che l’idea del ready-made era pericolosa, che poteva trasformarsi in qualcosa di gratuito, in una formula ripetibile all’infinito; e allora si dava delle regole: si imponeva di farne pochissimi e ne vagliava minuziosamente ogni aspetto. Dunque mi sembra che soprattutto vi accomuni questa lentezza, il fatto di procedere attraverso una complessa sedimentazione e stratificazione di idee e riflessioni.
Che nel mio caso si sviluppano tra letteratura, cinema, libri di fotografia e pittura. È chiaro, per fare un esempio, che se io sto lavorando su un’idea che ha a che fare col sangue, non posso ignorare certi quadri di Caravaggio, o tutta l’iconografia cristiana ed ebraica che riguarda il sacrificio dell’agnello: devo necessariamente sviluppare una serie di correlazioni storiche. In Children sono partito dalle fotografie di Kennedy fatte da Richard Avedon, in cui si vede questa villa meravigliosa con i bambini della famiglia Kennedy – accomunati dal loro destino tragico – mentre giocano, che io ho associato alle immagini della strage di My Lai e dei bambini morti in Vietnam, e poi ad alcuni celebri dagherrotipi ottocenteschi in cui si vedono dei miserabili coi loro bambini in braccio, alle immagini sul lavoro minorile di Jacob Riis, all’anziana donna della Corazzata Potëmkin, che ho isolato per mostrarla come se stesse urlando. Insomma ho sviluppato delle correlazioni. C’è l’intimità familiare, la famiglia borghese ripresa dal celebre fotografo, e poi c’è il massacro, quello che era successo in passato e che sarebbe accaduto di nuovo negli anni a venire. Secondo alcuni storici del cinema, in un film sperimentale ci deve essere un massimo di concentrazione semantica, non si deve perdere nulla di ciò che è mostrato. È un po’ come accade in una poesia di Montale o di Elliot, dove non ti puoi distrarre, devi soppesare attentamente ogni parola. I miei film vorrebbero essere così: dei piccoli poemetti dove cerco di concentrare più cose possibile.
In diverse occasioni hai preso le distanze da chi interpretava il tuo continuo interrogarti sul passato (sulle origini, sulla storia dell’arte ecc.) come una sorta di atteggiamento nostalgico…
Nostalgico io? La nostalgia è un atteggiamento reazionario! Chi ha detto questa cosa non ha capito niente del mio lavoro…
Infatti ci tieni sempre molto a precisare che nel tuo operato non c’è alcuna nostalgia – e io concordo su questo, nel senso che ci vedo semmai un atteggiamento molto più “postmoderno”, una sorta di costante rimescolamento di carte che nega l’idea stessa di una storia intesa in quanto processo evolutivo, progressione teleologicamente lineare. Qual è, insomma, il tuo rapporto col passato e con la storia, e in che modo questo ha a che fare coi tuoi processi creativi?
Io guardo sempre alla storia, e alla protostoria soprattutto, perché voglio capire quanto di attuale e di valido ancora ci possa essere di essa. E trovo che rileggendo la storia, magari a distanza di due secoli o più, spesso ci siano ritorni impensabili. Vedo che le cose tornano sempre ad accadere.
©Giacomo Daniele Fragapane
Il presente testo è stato pubblicato per gentile concessione di Giacomo Daniele Fragapane, curatore della retrospettiva dedicata a Paolo Gioli, organizzata nell’ambito della 45a Mostra Internazionale del Cinema Nuovo di Pesaro
CultFrame 07/2009
IMMAGINI
1 Paolo Gioli. Fotografia ©Giovanni Cappello
2 Paolo Gioli. Anonimatografo
3 Paolo Gioli. Traumatografo
4 Paolo Gioli. Children
LINK
CULTFRAME. Film di Paolo Gioli in dvd