È possibile rintracciare con precisione il confine che separa concezione etica della fotografia e spettacolarizzazione dell’orrore, documentazione e freddo formalismo? Ha senso la definizione “fotografia di guerra”? Ed ancora: quale approccio deve avere un fotografo nel momento in cui il suo sguardo si imbatte nella morte e nel dolore altrui? Si tratta di domande a cui, ancora oggi, dare una risposta certa è molto difficile, specie nel periodo che stiamo vivendo, nel quale la documentazione di conflitti bellici non è più esigenza storico-informativa ma vero e proprio genere, concepito sul modello cinematografico: ovvero un territorio espressivo regolamentato da codici precisi, da stilemi ritornanti utili soprattutto per una comunicazione giornalistica sempre più superficiale. La questione, oltretutto, si fa ancora più spinosa se ci si confronta con la natura stessa del “fare fotografia”, cioè con l’ambiguità di fondo di questa pratica visuale che nel caso delle sue applicazioni in situazioni belliche diviene autentico enigma filosofico.
Claude Lanzmann, filosofo e documentarista (tra i maggiori cineasti viventi), scelse nel suo capolavoro Shoah (un film di nove ore sull’orrore dello sterminio del popolo ebraico per mano dei nazisti) di non mostrare immagini dei cadaveri all’interno dei campi di sterminio, per una questione di etica e di rigore morale, per rispetto nei confronti delle vittime, per una scelta tesa a evitare ogni forma di spettacolarizzazione dell’orrore. Ebbene, nel mondo del cinema spesso ci si divide sulla presa di posizione di questo grande cineasta; alcuni rivendicano il diritto di mostrare l’indicibile per un supremo, quanto tragico, atto educativo-didattico, altri giudicano ciò semplicemente immorale. L’argomento, oltretutto, ci spingerebbe ad analizzare il problema (da parte del fotografo e/o del cineasta) della scelta, cioè del passaggio successivo allo scatto/ripresa che pone l’autore di fronte al dilemma se far vedere l’orrore oppure no. Senza addentrarci in speculazioni di carattere linguistico/filosofico è possibile affermare come la fruizione consumistica di immagini di guerra, pubblicate costantemente sui giornali e fatte vedere in televisione, abbiano prodotto assuefazione nel pubblico che, oltretutto, rimane affascinato da scatti di questo tipo a causa delle implicazioni estetiche di cui inevitabilmente sono portatrici.
Proprio per i motivi fin qui elencati ci interessava particolarmente la mostra allestita a Roma presso le Scuderie del Quirinale, curata da Marco Delogu e Umberto Gentiloni: Scatti di guerra – Lee Miller e Tony Vaccaro.
Il fruitore si trova davanti a un’architettura espositiva speculare e simmetrica. Le immagini di Lee Miller e Tony Vaccaro si fronteggiano in un percorso di rimandi e raffronti, in un drammatico dialogo visivo. I due autori però appaiono disposti su dimensioni espressive differenti. La prima colloca all’interno delle proprie opere il suo retroterra culturale e professionale. I suoi scatti appaiono saturi di una consapevolezza compositiva e allegorica che deriva dalle sue frequentazioni parigine negli anni trenta, il secondo sviluppa invece un discorso più cronachistico, o meglio fotogiornalistico. Entrambi cercano di comunicare ciò che il loro sguardo ha raccolto, ma fatalmente il loro universo visivo finisce per subire delle oscillazioni macroscopiche, tra misura espressiva e ridondanza.
Le opere messe in mostra in cui la morte viene raffigurata senza censura sono diverse, e alcune, a nostro modesto avviso, sono cariche di eccesso di formalismo e razionalità compositiva, specie nel caso delle fotografie dei campi di sterminio firmate da Lee Miller. Vaccaro invece procede per notazioni, inquadrature “improvvise”, aperture dello sguardo che lasciano trasparire un’ingenuità creativa probabilmente dettata dalla particolarità delle situazioni che lo stesso Vaccaro, fotografo-soldato, viveva in quel momento. Mentre Lee Miller adotta un’impostazione pittorico/surrealista come nel caso de La figlia del Borgomastro (Lipsia, 1945), giocando in maniera raffinata (troppo) sull’ambiguità sonno/morte, Vaccaro si sofferma su corpi dilaniati dai carri armati o soldati morti semisepolti dalla neve, producendo un effetto di spaesamento inquietante.
Probabilmente la decisione di proporre in mostra simili immagini saranno senza dubbio state dettate dall’esigenza di evitare ogni censura e di comunicare l’insensatezza della morte in guerra, ma ciò non toglie il fatto che non abbiamo potuto evitare di immaginare lo stesso evento senza gli scatti terribili (e discutibili sotto il profilo etico) di Lee Miller all’interno dei Lager e gli effetti splatter di alcune fotografie di Vaccaro. Questo nostro spunto di riflessione non intende certo sminuire il valore della mostra (più di testimonianza soggettiva che di documentazione storicistica, in ogni caso) che trova la sua vera forza nella diversità degli sguardi e nell’inserimento di alcune opere che da sole avrebbero potuto riassumere il senso reale di questo progetto. Tra queste ve ne segnaliamo due che reputiamo le più significative in esposizione. La prima, paradossalmente, vede Lee Miller non sola autrice dello scatto (effettuato da David E. Scherman) ma ideatrice e protagonista dello stesso. Stiamo parlando della celeberrima Lee Miller nel bagno di Hitler (Monaco, 1945), un’opera concettuale più che un’immagine fotografica nella quale il significato è prodotto dall’accostamento della figura della fotografa nuda nella vasca con accanto un’immagine del dittatore tedesco. Provocazione di chiaro stampo surrealista, questo lavoro non esaurisce il suo senso nello straniamento superficiale che emana, appunto, ma produce un sottotesto teso a ricondurre l’abominevole e ributtante immagine di Hitler alla sua squallida normalità. La follia terrificante del dittatore nazista in sostanza viene in questa fotografia raccontata in tutta la sua assurdità, la sua ferocia, il suo orrore proprio perché contestualizzata a livello concettuale nell’ambiente privato del suo bagno, luogo casalingo non tanto diverso da quelli che probabilmente avevano nelle loro case le vittime della sua malvagità razzista e xenofoba. Infine, lo scatto forse più toccante dell’intera mostra. È un frame di Tony Vaccaro intitolato Il ritorno (Francoforte 1946). Un uomo (forse un ex soldato o un prigioniero ormai libero) è accasciato su un muretto. La testa è poggiata su una piccola valigia. Una fotografia banale, ovvia, ma piena di umanità e di intima solidarietà. Si tratta di uno scatto in cui contenuto e forma si trovano su un piano euritmico, si intrecciano in un solo compatto flusso comunicativo. Un piccolo miracolo espressivo che solo uno “sguardo normale” poteva rintracciare in una realtà per molti versi indecifrabile.
©CultFrame 07/2009
IMMAGINI
1 Lee Miller with David E. Scherman. Lee Miller in Hitler’s Bath. Hitler’s apartment, Munich, Germany 1945. ©Lee Miller Archives, England 2008. All rights reserved
2 Tony Vaccaro. Entrance to hell. Rochefort, Belgium, December 1944. Photo: Tony Vaccaro / Galerie Bilderwelt, Berlin
INFORMAZIONI
Dal 3 luglio al 30 agosto 2009
Scuderie del Quirinale / Via XXIV Maggio 16, Roma
Orario: Tutti i giorni 17.00 – 24.00
Biglietto: Intero € 5,00 / Ridotto € 4,00 / Gruppi € 4,00
A cura di Marco Delogu e Umberto Gentiloni con il generoso contributo di Reinhard Schultz (Galleria Bilderwelt)
Catalogo: Punctum
LINK
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