E’ desolante constatare come un certo cinema italiano, nonostante si sforzi, non riesca a liberarsi dai cliché e dalla facile retorica, quegli elementi che intrappolano i film in una dimensione angusta, superficiale, distratta… Francesca Comencini, purtroppo, non si sottrae a questa comoda tentazione e, pur affrontando un tema non facile, anzi profondamente doloroso, resta alla superficie del dramma, non riesce ad andare oltre lo stereotipo della sofferenza e della solitudine. L’attesa di questa madre, estenuante e straziante, meritava maggior rigore, sia narrativo, sia registico. In quello “spazio bianco” che racchiude, non solo l’incubatrice in cui una bimba aspetta di nascere o morire ma anche la speranza lacerante di una donna, si dovevano condensare lo sgomento e la paura di chi, non potendo far altro, attende un segno che riporti alla vita. Una storia che poteva essere raccontata con un’asciuttezza narrativa molto più coinvolgente di qualsiasi dettaglio che ammicca alla facile commozione e, invece, la Comencini indugia. Indugia sul volto della Buy – sebbene l’attrice sia qui molto più misurata rispetto a quell’espressività nevrotica che, spesso, i registi le richiedono -, sulle scene di vita “rubate” attraverso le finestre, sulle sfumature oniriche (e intollerabili) come il balletto delle madri, su una napoletanità che si risolve in mero folklore… Eppure la storia di Maria poteva essere bellissima e arrivare a colpire, davvero, al cuore. Peccato che le venga costruito intorno un apparato di irritanti stereotipi a snaturare la profondità stessa del dolore per coglierne solo la patina, il velo in superficie che avvolge una ben più intima sofferenza.
La stessa protagonista (non più giovanissima, sola in una città che non è la sua e senza un compagno) non è che un trito cliché e, a ben guardare, anche un po’ ingiusto nei confronti di una parte di universo femminile – quello delle madri-single – che sembra qui destinato ad un perenne patimento, ad una solitudine ineluttabile in cui non c’è spazio per nessun tipo di affetto, come se l’unica forma di amore fosse quella di uno stabile rapporto sentimentale. Lo spazio bianco si risolve così in un’opera che sceglie di intraprendere la strada più semplice, privandosi del privilegio di raccontare il coraggio femminile con altrettanto coraggio, seguendo Maria solo da lontano, come per timore di avvicinarsi troppo e raccontarne la profondità e la paura, la cui evidenza non ha bisogno di alcun orpello ricattatorio per strappare una lacrima. Ciò che è rovente, brucia comunque, anche senza esaltare la bellezza del fuoco.
©CultFrame 09/2009
TRAMA
Napoli, ai giorni nostri. Maria è un’insegnante che viene da fuori e che, da una relazione con un uomo già padre di un bimbo, resta incinta. Lui non vuole saperne e lei decide di portare avanti la gravidanza. La bambina nasce, prematuramente, al sesto mese e per Maria inizia il calvario dell’attesa. La piccola, in un’incubatrice, ha la possibilità di vivere o di morire e la donna si trova ad affrontare un percorso di dolore e speranza che le permetterà di scoprire un’altra se stessa.
CREDITI
Titolo: Lo spazio bianco / Regia: Francesca Comencini / Sceneggiatura: Francesca Comencini e Federica Pontremoli, dall’omonimo romanzo di Valeria Parrella / Interpreti: Margherita Buy, Gaetano Bruno, Giovanni Ludeno, Antonia Truppo / Fotografia: Luca Bigazzi/ Montaggio: Paola Comencini / Musica: Nicola Tescari / Produzione: Fandango in collaborazione con Rai Cinema/ Distribuzione: O1/ Italia, 2009/ Durata: 98 minuti
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Filmografia di Francesca Comencini
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – Il sito