Il senso della realtà, prima di tutto. A questo credo, anzi “fede” come lui stesso la chiama, è improntato Nemico pubblico, l’ultimo film di Michael Mann, a Roma per la presentazione ai giornalisti italiani che lo hanno accolto (evento che si verifica di rado) con un applauso spontaneo prima dell’inizio della conferenza stampa. “Quello che mi interessava – ha spiegato Mann, parlando di Dillinger del quale descrive l’intensa, quanto breve, parabola criminale – era riportare in vita un uomo che ha segnato il suo tempo. Avevo intenzione di immergermi, e con me gli attori e il pubblico, nell’esistenza di quel personaggio. La grande magia del cinema è proprio questa: darti la possibilità di vedere le cose dall’interno”.
Per preparare il film, infatti, il regista si è documentato a lungo, è stato nei veri luoghi dove Dillinger è passato, ha visitato il carcere e, addirittura, ha avuto accesso ad alcuni effetti personali, conservati in una valigia che il bandito dimenticò nella pensione Little Bohemia. “Volevo che tutto fosse assolutamente autentico. Andare nei posti in cui Dillinger era stato significava vedere ciò che aveva visto lui, dal soffitto che fissava appena sveglio alla maniglia della porta che aveva aperto…”. Questo senso di realtà è fondamentale per Michael Mann che, in Nemico pubblico, non si “limita” a raccontare la storia di un rapinatore che divenne leggenda ma fa entrare lo spettatore nella vita di un uomo che ha “brillato” sulla scena dell’America degli anni Trenta, ancora sotto gli effetti della Grande Depressione. “Sono affascinato da John Dillinger da sempre– ha sottolineato il regista – perché sono cresciuto nella città dove lui è morto (Mann è nato a Chicago nel 1943, ndr) e ricordo che, da ragazzo, quando passavo in macchina davanti al cinema Biograph dove è stato ucciso, mio padre mi raccontava gli aneddoti di quel periodo”.
Nemico pubblico, infatti, non è un film d’epoca ma restituisce, intatte, le atmosfere dell’epoca anche grazie all’uso del digitale. “Abbiamo fatto delle prove una sera che a Los Angeles pioveva. Ho girato una scena sia in pellicola, sia in digitale e mi sono accorto che la prima restituiva l’idea del momento storico in cui era ambientata ma il digitale conferiva all’immagine tutta la veridicità del reale. Ed è lì che ho deciso”. Quello che Mann ha voluto – riuscendoci – è rendere autentico il momento. “Guidare quelle macchine, imbracciare quei fucili vuol dire essere, davvero, in quel determinato giorno, in quel determinato anno. Volevo che fosse il 1934”. La stessa verità che ha richiesto ai suoi attori, e in particolar modo a Johnny Depp (Dillinger) e Christian Bale (Purvis) che, insieme a lui, hanno percorso i sentieri realmente battuti dai personaggi che interpretano. “Con gli attori lavoro in modo molto tradizionale – ha spiegato Mann – e la mia idea è che loro si immergano nell’emotività del ruolo che interpretano”. Da Depp Mann voleva che egli pensasse come il gangster, che facesse proprie le sue emozioni. “La sera in cui fu ucciso cosa stava pensando Dillinger? – si è chiesto il regista – Vedendo Clark Gable sullo schermo forse rivedeva se stesso e, nonostante si fosse reso conto che il suo momento stava tramontando, fino all’ultimo secondo di vita ha fatto sfoggio di sicurezza, ha dimostrato di essere un duro…”.
Anche Bale non è stato da meno e Mann ha fatto in modo che l’attore si sentisse come quell’aristocratico del sud che era Melvin Purvis che, seppur con riluttanza, accetta di usare la violenza per catturare il nemico pubblico numero uno. Fedele al suo gusto per la sfida (vedi Heat, Insider o Collateral…), Mann ha messo i due antagonisti uno di fronte all’altro, tracciandone con forza i caratteri e facendo esplodere il confronto poiché per lui “è essenziale che gli attori conoscano fino in fondo l’animo di chi stanno interpretando”.
Riguardo alla curiosa analogia di un film ambientato negli anni della Grande Depressione che esce nelle sale in un momento come questo, dominato da una drammatica e globale crisi economica, il regista ha precisato che si tratta soltanto di una “sfortunata coincidenza”. “Non c’è stato nulla di pianificato ma è solo una casualità. Tuttavia ritengo che, come tutti i periodi di transizione, quello fu un momento disperato che contribuì alla nascita del XX secolo, epoca in cui hanno preso vita quelle forze che ci hanno spinto ad andare avanti”.
© CultFrame 11/2009