Maestri del Cinema ⋅ Peter Greenaway

Frame tratto dal film "Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante" di Peter Greenaway

Peter Greenaway. 5 April 1942 (Newport, Gwent, Wales, Gran Bretagna)

Per usare l’ormai nota definizione creata da Lev Manovich nel 2001, Peter Greenaway è un “database film-maker”. La forma database informa tutta la sua opera, all’insegna di alcuni principi che cercheremo qui di riassumere senza alcuna speranza di essere esaustivi. Inoltre, il regista britannico è ben cosciente di come il cinema sia una forma di testo secondario, di riproposizione della realtà e di tutte le altri arti all’insegna della loro ri-mediazione, per usare un’altra categoria della post-modernità, coniata da Bolter e Grusin nel 1999.
Iniziamo col ricordare che le arti sono sette: l’Architettura è la primigenia, e con la Musica rappresenta le arti primitive da cui derivano Pittura, Scultura, Poesia e Danza e infine il Cinema che le comprende tutte. O almeno dovrebbe, ed è a tale missione che Greenaway ha dedicato la sua intera attività. È anche per questo che le sue opere combinano ogni possibile codice espressivo e assumono spesso la forma esplicita e provocatoria dell’elenco, del catalogo e cioè, appunto, del database.
Se è nel barocco che l’inesauribile tensione all’accumulo di Greenaway trova la sua matrice più evidente, il cuore della sua opera artistica sta nell’ovvia preminenza di un approccio visivo. La genealogia della composizione dello spazio Architettonico-Pittorica è ostinatamente privilegiata rispetto al racconto, alla narrazione, poiché, come il regista stesso ama ripetere, citando Derrida: “L’image a toujours le dernier mot sur le texte”. Greenaway è infatti anche pittore, e nei suoi film domina lo spazio, la sua rappresentazione bi o tridimensionale, statica o dinamica, dentro cui corpi e oggetti sono disposti secondo schemi simmetrici o volutamente asimmetrici.
Sincretismi, polisemie del segno e del senso, ipertestualità e cornici inquadrano sempre uno spazio messo in scena, trasposizione tangibile di un’indagine che riguarda l’atto del vedere, e che viene vividamente posta all’attenzione del pubblico attraverso quadri, e tableaux, altrettante enciclopedie di rimandi a immagini pre-esistenti: ciò vale sia che il film consista in un’inchiesta sul salto evolutivo dal batterio agli animali all’uomo, sulla morte e l’imperfezione della vita, sia che si tratti di un’esplicita ricerca indiziaria su immaginari e storici creatori di immagini, da Tulse Luper, a Boullée, a Rembrandt. Tanto per rammentare i referenti più noti della riflessione del regista sulla rappresentazione visiva, ecco un primo, ristretto, catalogo greenawayano:

– in A Zed & Two Noughts (Lo zoo di Venere, 1985) i quadri e la vita di Jan Vermeer, che non dipingeva mai le gambe delle donne; in The Belly of an Architect (Il ventre dell’architetto, 1987) l’architettura classica, Piranesi e Piero della Francesca, e quella settecentesca con l’opera di Jacques-Louis David e gli utopici progetti di Etienne-Louis Boullée; in Drowning by Numbers (Giochi nell’acqua, 1988) il tema settecentesco del “memento mori” delle tre età (madre, figlia, nipote) e ancora Brueghel, Velasquez, Mantegna…; in The Cook, The Thief, His Wife & Her Lover (Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante, 1989) le opere di Frans Hals (in particolare Il banchetto degli ufficiali della Compagnia di San Giorgio) e di Rembrandt (in particolar modo la Lezione di anatomia); il riferimento iconografico centrale di Prospero’s Book (L’ultima tempesta, 1991) è il San Girolamo nello studioThe Baby of Macon (Id., 1993) non si contano le variazioni dell’immagine della Madonna col Cristo; e così via fino a Nigtwatching (2007), ennesimo saggio sull’interpretazione visiva del mondo a partire dall’omonima opera di Rembrandt. di Antonello da Messina e John Gielgud è infatti acconciato alla maniera del santo, ma anche da dio di Blake, e de la Tour e da Shakespeare stesso; in The Baby of Macon (Id., 1993) non si contano le variazioni dell’immagine della Madonna col Cristo; e così via fino a Nigtwatching (2007), ennesimo saggio sull’interpretazione visiva del mondo a partire dall’omonima opera di Rembrandt.

Frame tratto dal film “Lo zoo di Venere” di Peter Greenaway

Il regista gallese si presenta dunque come un appassionato indagatore di quell’universo rinascimentale, e poi fiammingo, in cui arti e scienze, e anatomia, si mescolano laicamente e senza pregiudizi religiosi o moraliMa ci sembra nuovamente il caso di sottolineare la prevalenza della forma sui contenuti. A strutturare le opere di Greenaway sono infatti progressioni numeriche, alfabetiche, enciclopedie arbitrariamente finite, nonostante la “forma database”, come i numeri, tenda evidentemente all’infinito. Contare è infatti una forma di narrazione, un tentativo impossibile di dare ordine al caos della natura e della creazione umana, che più di altri riesce a svelare l’artificiosità del racconto. Ci tocca fare un’altra serie di esempi:

– il più importante tra i corti giovanili del regista, Intervals (1969), è costruito sull’autonomia di registrazione della sua 16mm a molla dell’epoca e poi sulla notazione musicale vivaldiana della colonna sonora aggiunta nel 1973; Windows (1975) dà conto di 37 defenestrazioni avvenute nel 1973; The Draughtsman’s Contract (I misteri del giardino di Compton House, 1982) è diviso in 12 parti come 12 sono i disegni del protagonisti; A Zed & Two Noughts è invece concepito in 8 sezioni, come 8 sono gli stadi dello sviluppo evolutivo per Darwin; Drowning by Numbers si basa su di una struttura tripartita e su una progressione fino a 100; in The Cook, The Thief, His Wife & Her Lover ricorre il 10, il numero delle portate presentate nel film, divise però per 7 così come sono 7 i colori delle stanze in cui si svolge l’azione, ed era stato così anche per The Belly of an Architect che gioca sui 7 periodi dell’architettura romana; sono invece 24 (come i fotogrammi) i libri creati dal regista per Prospero’s Book (22 usati, 2 no) e The Pillow Book (I racconti del cuscino, 1996) è scandito dai 13 capitoli dell’omonima opera giapponese.

Frame tratto dal film “I misteri del giardino di Compton House” di Peter Greenaway

– associando ai numeri l’alfabeto, nei film di Greenaway sono frequenti le scansioni per 26, il numero delle lettere dell’alfabeto anglosassone: in Inside Rooms – 26 Bathrooms (1985) si mostra appunto un bagno per ogni lettera (associata con una certa libertà ad altrettante caratteristiche del bagno, ma quando arriva “X for an Xpert for bathrooms” l’inganno del gioco si disvela del tutto); H is for House (1973) è un elenco ossessivo di 110 parole che iniziano per H, e nel film sono anche incasellati 3 corti sui crudeli destini di persone che nutrono una fede eccessiva nei punti cardinali. L’alfabeto ritma anche il già citato A Zed & Two Noughts, per non dire degli ideogrammi di The Pillow Book

– un paragrafo a sé meritano il 92 e il personaggio di Tulse Luper: 92 è il numero atomico dell’uranio e in A Walk through H (1978) viene evocato per la prima volta Tulse Henry Purcell Luper, ornitologo amico del narratore del film (conosciuto anche col titolo The reincarnation of an ornitologist e probabilmente dedicato al padre appassionato di ornitologia e scomparso da poco), il quale dichiara che Tulse avrebbe collezionato per lui le 92 mappe che sono mostrate agli spettatori. Nel 1978 Greenaway gira Vertical Features Remake, riproposizione di uno dei documentari perduti firmati da Tulse, che sarebbe appunto Vertical Feautures. In The Falls (1980) si elencano 92 personaggi inesistenti vittime di un misterioso “Violent Unknown Event” (Evento Violento Non Identificato). Protagonista della 27° biografia è Cassie Colpits, una e trina (madre, figlia, nipote) protagonista di Drowning by numbers, moglie di Luper dai tempi di Vertical Features e poi nella trilogia The Tulse Luper Suitcases (Le valigie di Tulse Luper , 2003-2004): in questi tre film vengono disvelati tutti i segreti di Tulse, che sarebbe nato come il regista a Newport nel 1911 e scomparso nel 1989, e in particolare il contenuto delle 92 valigie da lui lasciate in giro per il mondo.

Frame tratto dal film “Le valigie di Tulse Luper – La storia di Moab” di Peter Greenaway

Numeri, lettere, mappe, enciclopedie e capitoli hanno quindi due funzioni fondamentali nei film di Greenaway: quella ritmico-strutturale, ma anche quella di svelare l’artificialità della durata dell’opera e delle strutture su cui si basa il linguaggio stesso del cinema. Non a caso l’ossessiva riproposizione di statistiche e cataloghi è spesso enunciata da una voce off che è la parodia delle voci off del documentario (interpretata nei primi lavori del regista da un vero e noto speaker inglese, Colin Cantlie), o da personaggi rivolti alla macchina da presa. Non mancano inoltre i giochi di parole, le false piste, e i veri e propri nonsense. Tutte queste cornici rivelano in fondo la futilità dei sistemi di controllo e catalogazione che l’uomo s’impone, ordinando la sua vita in base all’età, alla lettera dell’alfabeto con cui comincia il suo cognome, o cercando di rappresentarla con un solo codice alla volta, quando anche la polifonia del cinema di Greenaway si rivela spesso insufficiente.
Anche per questo, negli ultimi due decenni l’opera del regista si è fatta decisamente transmediale, oltre che multimediale, concentrandosi sulla creazione di nuovi “oggetti mediali” (ipertesti, cd rom, database di tutte le fogge) associati alle sue creazioni filmiche e portando il “cinema fuori dal cinema” attraverso le sue sempre più frequenti installazioni artistiche.
Forse è fuori dalle sale che Greenaway cerca una risposta alle accuse di “retorica del vuoto” che sono state mosse a lui come ai post-moderni e ai neo-barocchi di ogni epoca: oggi l’artista cerca in ogni modo di incontrare lo spazio materiale della città, dell’architettura, e di interagire attraverso di esso con la Storia: perché i Luoghi, come ha sintetizzato Augé, sono “relazionali, storici e identitari”. L’invasione del non-luogo cinema con cui Greenaway ha invaso oramai diverse città , e la Reggia di Venaria, apre infatti nuovi spazi all’interazione con i monumenti storici e con i cittadini-spettatori. Ed è probabilmente questa la nuova sfida che segnerà il prosieguo della sua opera.
Ciononostante, e benché non abbia mai convinto molti critici né vinto Oscar, Leoni, Orsi o Palme d’oro, siamo certi che Greenaway continuerà a fare film, almeno fino al 92° lungometraggio; e non certo per vincere premi, ma per non lasciare il cinema nelle mani dei “raccontatori di storie”.

P. S. anche questa scheda è stata redatta in causa e con il maggior ossequio possibile alla modalità database. Ce ne scusiamo.

BIOGRAFIA

peter_greenawayPer sua stessa reiterata ammissione gli eroi della giovinezza del futuro regista, quelli che l’hanno formato più di tutti gli altri artisti, sono stati: Ingmar Bergman e il suo Il settimo sigillo, che lo folgorò a 16 anni; L’anno scorso a Marienbad di Resnais, ancora oggi “il suo film preferito”; R. B. Kitaj, da sempre il suo pittore modello; la scrittura di Borges e Calvino; e infine la musica di John Cage a cui ha anche dedicato una parte di Four American Composers (1983).
Figlio di un ornitologo dilettante, il giovane Greenaway vorrebbe diventare pittore e per questo si iscrive alla Walthamstow School of Arts, tenta invano di passare le selezioni per altre prestigiose scuole londinesi, e nel 1964 riesce a inaugurare alla Lord’s Gallery la sua prima mostra dal titolo Ejzenstejn at Winter Palace. L’anno successivo inizia a lavorare come tecnico del montaggio al Central Office Information, un organismo governativo per il quale realizzerà anche un’ottantina di  documentari o pseudo-tali.
Con il primo lungometraggio, The Falls (1980), vince il premio del BFI e il premio Age d’or a Bruxelles. Ma è The Draughtsman’s Contrac (I misteri del giardino di Compton House, 1982) che rivela Greenaway al festival di Venezia e che segna il primo capitolo del suo sodalizio con il musicista neo-barocco Michael Nyman. A partire dal film successivo, A Zed & Two Noughts (Lo zoo di Venere, 1985), inizia la sua collaborazione con il direttore della fotografia di Marienbad, Sacha Vierny, con cui lavorerà in tutti i suoi lunghi fino 8 ½ Women (Otto donne e mezzo, 1999), e alla sua morte. Trasferitosi a vivere e a lavorare in Olanda, Greenaway è oggi un artista internazionalmente molto attivo, e su più fronti.

© CultFrame 02/2010 – 09/2020

FILMOGRAFIA

1962 Death of Sentiment (corto)
1966 Train (corto)
1966 Tree (corto)
1967 Revolution (corto)
1967 Five Postcards from Capital Cities (corto)
1969 Intervals (corto, rieditato nel 1973)
1971 Erosion (corto)
1973 H is for House (corto, rieditato nel 1978, prodotto dal British Film Institute)
1975 Windows (corto)
1975 Water (corto)
1975 Water Wrackets (corto, BFI)
1976 Goole by Numbers (corto)
1977 Dear Phone (corto, BFI)
1978 Eddie Kid (serie ‘‘This Week in Britain’’ per il Central Office of Information)
1978 Cut above the Rest (‘‘This Week in Britain’’ COI)
1978 1-100 (corto)
1978 A Walk Through H: The Reincarnation of an Ornithologist
1978 Vertical Features Remake
1979 Woman Artists (COI)
1979 Leeds Castle (COI)
1979 Zandra Rhodes (‘‘This Week in Britain’ COI)
1979 Lacock Village (COI)
1979 Country Diary (COI, con John Bitterman)
1980 The Falls
1980 Act of God (Thames Television)
1981 Terence Conran (‘‘This Week in Britain’’ COI)
1982 The Draughtsman’s Contract (I misteri del giardino di Compton House)
1983 The sea in their blood aka The Coastline (documentario televisivo)
1983 The Coastline (‘‘This Week in Britain’’ COI)
1983 Four American Composers (documentario)
1984 Making a Splash
1985 A Zed & Two Noughts (Lo zoo di Venere)
1985 Inside Rooms – 26 Bathrooms
1987 The Belly of an Architect (Il ventre dell’architetto)
1988 Drowning by Numbers (Giochi nell’acqua)
1988 Fear of Drowning
1988 Death in the Seine
1989 The Cook, The Thief, His Wife & Her Lover (Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante)
1989 A TV Dante: The Inferno Cantos I-VIII
1989 Hubert Bals Handshake (corto)
1991 A walk throught Prospero’s library
1991 Prospero’s Books (L’ultima tempesta)
1991 M is for Man, Music and Mozart
1992 Rosa (libretto e messa in scena dell’opera)
1992 Darwin (documentario televisivo)
1993 The Baby of Macon
1995 Stairs 1 Geneva (video e installazione poi riproposta anche in altre città)
1996 The Pillow Book (I racconti del cuscino)
1997 The Bridge (corto)
1995 Lumière et compagnie (corto)
1999 8 ½ Women (Otto donne e mezzo)
1999 The Death of a Composer: Rosa, a Horse Drama (versione televisiva dell’opera Rosa)
2000 Bologna Towers (installazione poi sviluppata nel 2002 in Sei storie per Bologna)
2001 The Man in the Bath (corto per un’installazione videomusicale con Philip Glass)
2003 The Tulse Luper Suitcases, Part 1: The Moab Story (Le valigie di Tulse Luper – La storia di Moab) 2003 The Tulse Luper Suitcases, Part 3: From Sark to the Finish
2004 The Tulse Luper Suitcases, Part 2: Vaux to the Sea
2004 European Showerbath (corto in Visions of Europe)
2005 A Life in Suitcases
2006 The Children of Uranium (libretto e installazione in 92 parti)
2007 Nightwatching
2007 Peopling the Palaces at Venaria Reale (serie di tableaux vivants in video per l’inaugurazione della Reggia restaurata)
2008 Rembrandt’s J’accuse (documentario)
2009 The Marriage (video e performance sull’Isola di San Giorgio a Venezia)
2012 Goltzius and the Pelican Company
2015 Eisenstein in Messico

Claudio Panella

Claudio Panella, Dottore di ricerca in Letterature e Culture Comparate, si interessa in modo particolare alle interazioni tra la letteratura e le arti, alle trasfigurazioni letterarie del paesaggio e della città, alle rappresentazioni del lavoro industriale e post-industriale nella letteratura italiana ed europea. Attualmente è redattore di Punto di Svista - Arti Visive in Italia e CultFrame - Arti Visive.

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