Bataille nel suo libro “Critica dell’occhio” scrive che non vi è nulla, nel corpo degli uomini e degli animali, di più seduttivo dell’occhio ma al contempo questa “seduzione estrema è probabilmente al limite dell’orrore”. Nell’occhio, quindi, orrore e seduzione convivono, un’inquietante prossimità che nasce, forse, dalla sua stessa fisiologia. L’occhio è liquido e solido insieme, è trasparente e opaco allo stesso tempo; è uno specchio oscuro dietro il quale si nasconde l’ombra della ragione e della follia che dal suo fondo scrutano il mondo. Lo scrutano, secondo Bataille, con una “golosità cannibale”. Con l’avvento della fotografia, la voracità dello sguardo si moltiplica e si raffina. Se l’occhio umano può distrarsi dalla visione e vagare nel vuoto delle rèverie interiori, l’occhio fotografico non può sottrarsi, deve assolutizzare il suo rapporto con il mondo e sisificamente pietrificarlo nel cerchio magico dell’immagine. Questo sguardo che in quello che vede vuole coglierne la profondità e vuole ridurre il margine di visione che all’occhio umano si nasconde, lo troviamo nelle fotografie di Sandro Peracchio.
Le sue fotografie sono il prodotto d’una consustanziazione dello sguardo trasformato in immagine. Poiché l’immagine è l’alimento eucaristico dello sguardo. Il cannibalismo goloso della visione nelle fotografie di Sandro Peracchio è sottointeso dagli stessi soggetti rappresentati, quasi tutti derivano dal mondo alimentare (tranci e quarti di carne, ortaggi, torsoli di mele, bucce d’arancia ecc.), una foto, infatti, è pertinentemente intitolata “Peccato di gola”. Insomma, Peracchio pone un’equivalenza metaforica tra i soggetti delle sue foto e la golosità del suo sguardo. A. Hitchcock ha spesso asserito, dichiarando la sua poetica, con sulfurea ironia, che: “Certi registi filmano dei “pezzi di vita” (tranches de vie), io invece filmo dei “pezzi di torta” (tranches de gateau)”. Ma entrambi i soggetti -sia quelli di Peracchio sia quelli di Hitchcock -, pur nell’evidenza della loro fisicità vogliono condurre a qualcos’altro, sono investiti d’una funzione che trascende la materia di cui sono fatti. Il problema che Peracchio pone è: la cosa rappresentata (il quarto di bue), è solo immagine della cosa, oppure attraverso lo sguardo è immagine del pensiero e quindi, l’oggetto che vediamo è un oggetto reale o un oggetto della nostra mente? Dice Jean Clair: ”Riflettere significa, come l’equivalente francese re-garder nel campo visivo, operare una torsione, una flessione del pensiero, manifestare un’esitazione, un arresto, tornare indietro, rivolgersi su di sé per pensare qualcosa che non era stato ancora pensato. Ciò comporta un secondo livello di pensiero che punta all’inconscio”. Allora, di cosa trattano i soggetti fotografici di Peracchio, credo si possa dire con Jean Clair, che provengono dall’inconscio come scarti, come trucioli di legno che si perdono da una trave piallata, ma che sono ri-guardati dalla Ragione. Gli scarti, la Ragione non solo li ri-vede ma ri-vedendoli, ri-guardandoli, li guarda con ri-guardo, li rende esemplari. L’opera d’arte è il prodotto di questo sguardo riguardoso, di questo sguardo che considera la cosa, la ritaglia dal mondo circostante e la ridefinisce, la ri-vivifica e la ri-significa.
In una foto dal titolo impietoso “Il cervello nella vasca” S. Peracchio ci racconta qualcosa che attiene all’occhio. Nella foto si osserva un pezzo di carne di bue immersa nell’acqua di un vaso trasparente. Questa trasparenza è la stessa dell’occhio che lascia vedere cosa nasconde la sua interiorità e nell’interiorità vediamo la cosa che si occulta; nel suo nascondimento ci svela il fascino e l’orrore della carne sorpresa nuda, priva della maschera della pelle. In altri due scatti, il tema della carne è rappresentato con tutta la sua evidenza, in tutta la sua crudele crudità. L’oggettività dell’immagine ci ricorda W. Burroghs nel libro “Pasto nudo” quando scriveva di quell’attimo congelato quando ognuno vede cosa c’è sulla punta d’una forchetta”. Nella fotografia chiamata “Vita”, la carne rossa appare trafitta da una lama blu nel modo più asettico, è un coltello che recide le fibre muscolari ma è come se fosse un taglio chirurgico che incide il cervello. Questa fotografia con la sua oggettività a-emozionale potrebbe rievocare un quadro di Fontana, ma credo che per la drammaticità sacrificale della sua materia rievoca più compiutamente, forse, l’opera di Burri.
In un’altra serie, Peracchio pone come protagonisti una mela e un giornale spiegazzato, sono anch’essi scarti del quotidiano, ripescati dalla scatola della spazzatura, pazientemente ripuliti e resi asettici, pronti a significare qualcosa che non appartiene alla loro natura originaria. In “Nero prima della conoscenza”, compare una mela con inciso un buco nero, un buco che ha la forza drammatica d’un urlo che proviene da luoghi la cui oscurità ha radici al di fuori della memoria umana –lo spazio e il tempo edenico-, come “L’urlo” di Munch.
La successione delle altre fotografie, racconta lo scontro tra la forma tridimensionale della mela e la bidimensionalità del giornale, come il conflitto che la vita stessa deve subire per poter nascere.
In “Dominio”, il contrasto viene ironicamente risolto, il giornale accartocciato è posto all’interno del buco inciso nella mela ed ecco un’immagine che presuppone un quadro simbolico, dove la mela sferica, emblema dell’assoluto, ingoia il relativo, mentre il giornale è simbolo della precarietà del quotidiano legato a quella porzione di tempo che noi chiamiamo giorno.
In una serie di sette scatti, Peracchio sviluppa il suo procedimento creativo; allinea con pazienza, foto per foto, scarti alimentari, scorze di finocchio, bucce di arance, torsoli di mela, creando composizioni ordinate secondo valori numerici, ognuna di loro contiene ventiquattro frammenti, (allusione al doppio cerchio simbolo dell’infinito) ad esclusione di “Eccezione” che ne conta trenta. All’elemento numerico si accompagna l’elemento cromatico, dal bianco dei finocchi, all’arancione delle bucce d’arancio, al rosso di “Tauromachia”. Le funzioni cromatiche e numeriche organizzano gli scarti in un mondo ordinato; provenendo anch’essi dal Caos – come la mela del “Nero prima della conoscenza”- adombrano a un ordine, a un Cosmos e non casualmente, una di queste fotografie porta il titolo “Adombrati”.
La Ragione seleziona gli scarti, geometrizza lo spazio quadrangolando le composizioni e inaugura un nuovo modello di classicità e di bellezza che, come dice J. Winckelmann, è sempre il prodotto dell’Intelletto.
Una sola, nell’insieme delle fotografie di Sandro Peracchio, fa storia a sé, “Complice l’amore-tenerezza”, ed è il ritratto di una mano, elegantemente guantata che stringe fra le dita una rosa bianca. Qui, l’erotismo e il nascondimento – il guanto è la maschera della mano – sono i sottili protagonisti. La mano nascosta cinge l’incarnazione della bellezza, il fiore simbolo della femminilità generatrice di vita, che al tempo stesso è la forma labirintica che procede….. verso la morte.
Testo di Alberto Abate
Per gentile concessione della Galleria Luxardo
CultFrame 02/2010
IMMAGINI
1 Sandro Peracchio. Vita (Omaggio floreale)
2 Sandro Peracchio. Peccati di gola
3 Sandro Peracchio. Cervello nella vasca
4 Sandro Peracchio. Dolore
INFORMAZIONI
Dall’8 febbraio al 6 marzo 2010
Galleria Luxardo, Via Tor di Nona 39, Roma / Telefono: 0668309555
Ingresso libero