L’artista iraniana Shirin Neshat con la sua opera prima Donne senza uomini, tratta dal romanzo di Shahrnush Parsipur, ha vinto all’ultimo Festival di Venezia il Leone d’argento per la migliore regia. E questo è un fatto significativo.
Donne senza uomini si distacca da qualsiasi altro film arrivato da quella parte del mondo. Non è migliore o peggiore, è semplicemente (e sublimemente) diverso. Shirin Neshat, una genuinamente bellissima donna, parla con voce pacata anche quando deve raccontare cose terribili.
L’abbiamo incontrata a Roma in occasione dell’uscita della sua pellicola e le abbiamo rivolto alcune domande.
Lei è un’artista concettuale. Perché ha deciso di fare un film di finzione?
Ho cominciato con la fotografia e poi sono passata al video. Sapete, io non abbandono mai le cose che faccio finché non mi stanco. Così, girando i video ho scoperto il racconto di una storia per immagini. Insomma, mi sono innamorata della narrazione ed ecco il mio primo film. Infine, quello che mi piace al cinema è il fatto che si rivolge a un pubblico estremamente vario. L’arte parla a un nucleo esclusivo ed educato mentre il cinema parla a tutti.
Passando dalla videoarte al cinema è cambiato qualcosa al suo modo di lavorare?
Ci ho messo molto a fare questo passaggio perché stavo cercando un modo equilibrato. E mi spiego: dovevo allargare il mio pubblico ma senza perdere la mia dignità artistica. E vi assicuro che non è una cosa facile. Un conto è riuscire ad esprimere qualcosa che ha un valore artistico nei sei o sette minuti della durata di un video, un altro tipo di esperienza è raccontare storie e approfondire personaggi. Essere artisti e artisti commerciali allo stesso momento. Quando ci riesci è meraviglioso.
Il contesto della storia rappresenta un capitolo fondamentale nella politica mediorientale. Il primo e ultimo periodo democratico in Iran oggi è quasi sconosciuto. Come mai?
Non so di preciso perché, ma ho la sensazione che solo dopo l’11 settembre l’opinione pubblica americana abbia sviluppato un’autentica curiosità e un genuino interesse per le culture e la storia islamiche e mediorientali. A quanto mi risulta, in tempi recenti, pochissimi studiosi o mezzi di informazione hanno fatto riferimento al colpo di stato del 1953 organizzato dalla CIA, che è stata direttamente responsabile della formazione della Rivoluzione Islamica. Sono convinta che sarebbe utile rivisitare la storia, in modo di comprendere i motivi profondi all’origine del conflitto tra occidente e mondo mussulmano e di offrire nuove prospettive, studiando per esempio come i mussulmani hanno subito il comportamento criminale di grandi imperi occidentali come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.
Cosa rappresenta il giardino al centro della sua pellicola?
Uno spazio di libertà per queste donne. Un luogo dove loro avrebbero potuto avere una seconda chance. Come l’ho avuta io, lasciando il mio Paese. Più in generale, col mio film voglio soprattutto mostrare, oltre alla condizione femminile, la convivenza degli opposti: realismo e magia, arte e politica, arte e cinema. E come la bellezza incroci la violenza
L’uso del colore: colori diversi dentro il giardino e colori più sfumati in città. Che cosa ha voluto sottolineare con questo contrasto?
Questa è una domanda molto interessante. Quando mi avvicino alla città ho un approccio sociologico. Così, quella visione mi porta più vicino ai miei lavori precedenti. Ho pensato che fosse interessante utilizzare colori saturi sopratutto per rendere omaggio al periodo storico in cui il film è ambientato. Ma lo schema cromatico cambia: dai toni vivaci del giardino si passa alle scene delle manifestazioni nelle strade, dove ho scaricato il colore per dare l’impressione di essere davanti ad immagini di repertorio.
Cosa pensa del ruolo della donna in Iran? È cambiato dal lontano 1953?
Io non vedo affatto le donne del mio Paese come vittime. Anche se è vero il fatto che sono oppresse. Sono molto forti, non hanno mai fatto compromessi, hanno sempre combattuto per i loro diritti. Per le donne iraniane sono sempre state fonte d’ispirazione, ma non per il semplice fatto che anch’io sono iraniana.
Che cosa possono insegnare le donne musulmane a quelle occidentali?
A resistere e a fiorire nelle situazioni più avverse. In un mondo che le opprime e che nega molti beni materiali, le donne iraniane hanno trovato sollievo nella cultura, nel pensiero e hanno sviluppato idee. Un film proiettato in un minuscolo villaggio delle montagne può aprire gli occhi molto più di un comizio.
©CultFrame 03/2010
LINK
CULTFRAME. Soliloquy. Turbulent. Mostra di Shirin Neshat
CULTFRAME. Le donne di Allah. Un libro e una fotografia a confronto (fotografia di Shirin Neshat)
CULTFRAME. Le fotografie di Abbas Kiarostami in mostra a Roma
CULTFRAME. Viaggio negli Islam del mondo. Mostra di Abbas