Bertrand Tavernier

SCRITTO DA
Mariella Cruciani

Bertrand Tavernier. 25 aprile 1941 (Lione, Francia)

bertrand_tavernier-horloger_de_saint_paulBertrand Tavernier, cineasta francese innamorato del cinema americano di serie b e di registi come Losey, Walsh, Ulmer, assistente di Melville, addetto stampa indipendente, collaboratore di riviste di cinema (Cahiers du cinéma, Positif) spesso antagoniste tra loro, risulta, ancor prima del suo esordio (L’horloger de Saint-Paul / L’orologiaio di Saint-Paul, 1973), una personalità versatile e impossibile da ricondurre a schemi precostituiti. Per la sua ricerca in direzione di un cinema senza aggettivi, Tavernier è stato spesso considerato un eclettico, colui che ha recuperato la tradizione dei generi cinematografici classici, americani ed europei. In realtà, il regista di Lione, come tutti i veri autori, persegue da sempre, pur nella varietà delle forme e delle sollecitazioni, una sua “poetica”. Il suo sguardo è sempre puntato su piccoli-grandi uomini colti all’interno di un determinato contesto storico: uomini incapaci di ribaltare lo stato delle cose e in grado di affermare se stessi e il proprio rifiuto dell’ordine costituito solo attraverso la ribellione o la rinuncia. Non si tratta mai di eroi e di esseri umani “superiori”, bensì di personaggi anarchici, caotici, capricciosi, burleschi, cocciuti, precipitosi di correre verso la frustrazione, votati all’atto gratuito. O, viceversa, ci si imbatte in personalità crepuscolari, malinconiche, nostalgiche, ferite. Tavernier ci mostra, di film in film, un vero e proprio campionario di figure che faticano a stare nella propria pelle, nel proprio tempo, e che si sforzano di tenere a bada l’inquietudine che li consuma.
Michel Descombes (Philippe Noiret), orologiaio nel quartiere Saint-Paul di Lione, appartiene senz’altro al secondo gruppo di tipi umani: conduce una vita tranquilla e ripetitiva, dividendosi tra il lavoro e gli amici. Un giorno, il commissario Guibort (Jean Rochefort) gli dice che il figlio sedicenne Bernard è fuggito con una ragazza, Liliane, dopo aver ucciso un uomo. A questo punto, Michel è costretto a ripensare al rapporto con il figlio, rimasto solo dopo il divorzio dei genitori, e a interrogarsi sulle sue responsabilità. Tratto da un romanzo di Georges Simenon (L’horloger d’Everton), adattato da Tavernier insieme a Jean Aurenche e Pierre Bost, sceneggiatori indicati da Truffaut, nell’articolo più famoso della storia della critica cinematografica francese, come i responsabili di un “cinema de papa”, il film, apparentemente intimista e introspettivo, cela, invece, un sottotesto dalle forti implicazioni politiche. In un clima pesante, da città sotto assedio, il pedinamento, da parte di Tavernier, dell’orologiaio si trasforma, strada facendo, in una parabola che afferma la necessità di recuperare scelte di tipo morale. Quando, in corte d’assise, Michel arriva a proclamarsi “interamente, totalmente solidale” con suo figlio, da una parte, riesce a recuperare il legame con il ragazzo, dall’altra, sembra voler dire che, uccidendo Razon, Bernard ha, per certi versi, reso un servizio alla società. L’itinerario interiore del padre verso il figlio è, contemporaneamente, la presa di coscienza di una generazione repressa, costretta, come ha scritto Sergio Arecco, “a rifluire nel quotidiano per proteggersi dal tempo sregolato della Storia”.

bertrand_tavernier-que_la_fete_commenceLa Storia, con la S maiuscola, viene riletta da Tavernier nel suo secondo film: Que la fête commence (Che la festa cominci, 1975). Di nuovo insieme a Jean Aurenche, il regista di “L’horloger” decide di soffermarsi, questa volta, su un capitolo di grande importanza della storia francese, anche se spesso trascurato: il periodo della Reggenza. Si tratta della Francia di Filippo D’Orléans, eletto Reggente durante l’interregno che segue la morte del Re Sole (1715): mentre il popolo langue in miseria, a corte regnano corruzione e vizio. L’autore racconta il suo film così: “Ci siamo concentrati su quattro personaggi: tre uomini che, ciascuno a suo modo, vogliono cercare di cambiare il sistema nel quale vivono e una ragazza, quasi una bambina, una giovane prostituta che volge il suo sguardo a questi uomini (…). Parafrasando Sergio Leone si potrebbe dire: il liberale, il cinico, l’idealista e la puttana”. Il liberale è Philippe d’Orleans (Philippe Noiret), il quale viene persuaso con l’inganno dal cinico abate Dubois (Jean Rochefort), suo consigliere, a mandare a morte l’idealista marchese di Pontcallec (Jean-Pierre Marielle), capo della rivolta dei bretoni. La “puttana” è Emilie (Christine Pascal, la Liliane di L’horloger), giovanissima e angelica, la quale condivide con il Reggente lo stordimento e la malinconia di una vita dissipata. Doppio del Reggente è il Marchese di Pontcallec, un Don Chisciotte bretone generoso, stravagante, barocco, incarnazione dell’idealismo spinto fino alla follia: finirà sul patibolo con grande dignità e riscatterà, così, tutti i coups de theatre precedenti. Pontcallec e il Reggente  sono due facce della stessa medaglia e rappresentano bene l’empasse che sempre caratterizza i personaggi di Tavernier: meglio la rivolta, anche se infruttuosa, o la rinuncia? Per il regista non esiste una terza via e i suoi anti-eroi finiscono sempre per definirsi in negativo: sanno perfettamente cosa non vogliono ma non riescono a prospettare un’alternativa reale, concreta all’esistente.

Che l’affermazione di sé possa, paradossalmente, compiersi attraverso il sottrarsi, la fuga o, addirittura, gesti autolesionistici è confermato dall’apologo che Tavernier realizza nel 1979: La mort en direct (La morte in diretta).  Protagonista di questo strano film, a metà tra la fantascienza e il melodramma, è Roddy (Harvey Keitel), operatore di una rete televisiva, il quale accetta di farsi inserire una microcamera nel cervello, trasformandosi in una specie di telecamera vivente. Diventato, come Serafino Gubbio di Pirandello, “puro sguardo”, Roddy, all’inizio, è felice di fare di ogni visione un film e utilizza  lo straordinario potere per riprendere, a sua insaputa, i presunti ultimi giorni di Katherine (Romy Schneider), affetta da un male incurabile, ma, poi, entra in crisi. Oltre ad essere, naturalmente, una disperata riflessione sull’immoralità dei mass media, La mort en direct (La morte in diretta) è un’opera sulla libertà e sul bisogno di riscatto. Se è vero, come ha scritto Giorgio Cremonini, che, in questo film, “il reale è diventato una totalità indifferenziata, un processo chiuso in cui soggetto e oggetto sono termini che non hanno più senso”, va aggiunto, però, che i due protagonisti riescono, seppur a caro prezzo, a sfuggire alla simulazione, all’ambiguità, all’impotenza e ad imporre la propria individualità: attuando gli unici gesti di cui ancora dispongono, Roddy e Katherine si riappropriano di sé, nel momento stesso della fine. Allo stesso modo, il film, carico di steadycam, di carrelli, di lunghi piani sequenza, si alleggerisce, pian piano e trova una sua misura nel finale: il percorso di Roddy e del regista-demiurgo Tavernier finiscono, qui, per incontrarsi e quasi coincidere.

bertrand_tavernier-coup_de_torchonL’eccesso, il sovraccarico, anche formale, che caratterizza La mort en direct (La morte in diretta, 1979) diventa in Coup de torchon (Colpo di spugna, 1981) autentica follia: le scene sono sfasate, di traverso, i personaggi e le situazioni, al limite del grottesco. Persino la musica, in costante rottura di toni, è strana, minacciosa, perturbante, ma anche commovente. La macchina da presa è sempre in movimento e celebra il trionfo dell’insolito, della catastrofe, dell’insolenza. Per questa commedia metafisica, che visualizza l’irrazionale, il composito, il difforme, Tavernier richiama, come protagonista, Noiret, suo attore “autobiografico”, colui, attraverso il quale, riesce a far passare i sentimenti e i dubbi più intimi. Siamo nell’Africa francese del 1938, alle soglie della guerra e, dopo esser rimasto per tanto tempo a guardare, il poliziottto Lucien Cordier passa all’azione con la determinazione del serial killer che decide di fare piazza pulita. L’Africa del film non ha nulla di esotico o di pittoresco: non ci sono leoni né altri felini e il folklore cede alla metafisica. Come ha osservato Gilles Cèbe, “non si sa mai che partita sta giocando Cordier, lui che provoca Dio sostituendosi al destino senza sapere davvero se è una reincarnazione di Gesù o di Giuda, del traditore o dell’eroe”. Un’opera straniante, in cui l’instabilità delle immagini, amplificata dall’uso di una steadycam volutamente traballante, è tutt’uno con una concezione “doppia” del mondo: tutto oscilla, letteralmente, tra logica e follia, tutto si rovescia nel suo contrario, rendendo quasi impossibile il giudizio.

bertrand_tavernier-domenica_in_campagnaLe due modalità psicologiche (la rivolta o la resa) sinora considerate sono rintracciabili persino nei personaggi di un’opera di Tavernier apparentemente lontanissima da quelle fin qui descritte. E’ il caso di Un dimanche à la campagne (Una domenica in campagna, 1984), pellicola di grande compostezza e di pacata malinconia. Tratto dal romanzo dello sceneggiatore Pierre Bost, Monsieur Ladmiral va bientôt mourir, il film è incentrato su un motivo cruciale della drammaturgia di Tavernier: la visita al padre, nucleo tematico anche del documentario televisivo Lyon, le regard intérieur (Lione, lo sguardo intimo, 1988), girato con il padre René un anno prima della sua morte, nonché di Daddy Nostalgie (1990). Il genitore di Un dimanche à la campagne (Una domenica in campagna) è Ladmiral (Louis Ducreux), un artista settantenne, padre discreto e uomo a cavallo di due mondi,  costretto a guardarsi allo specchio, attraverso i figli, e a riflettere sulla sua esistenza. Nonostante l’evidente predilezione per l’esuberante figlia Irène, Ladmiral assomiglia di più al prudente figlio maschio, Gonzague: anche l’anziano pittore ha avuto, a suo tempo, paura e non è stato in grado di rischiare. Lo spiega lui stesso alla figlia: alla grande esposizione di Cézanne del 1895, sconcertato da tanta originalità, si chiese – Dove lo porterà? – e tornò a dipingere i soliti soggetti. Sempre a Irène, Ladmiral racconta un sogno emblematico: ha sognato Mosè sul punto di andarsene dopo aver trovato la Terra Promessa, ormai appagato dal solo fatto di averla scoperta. Ladmiral, a differenza della figlia, non “ha preteso troppo dalla vita” ma, ora che si trova a fare un bilancio, si pente della sua chiusura al nuovo. Il finale sancisce la svolta: vediamo l’anziano pittore chiudersi nello studio, togliere dal cavalletto la tela giudicata ripetitiva dall’amata Irène e sostituirla con una bianca, tutta da dipingere. Dopodiché, ruota il cavalletto verso la finestra, si siede e lo guarda in attesa di un’ispirazione che venga, almeno una volta, dall’esterno.

In definitiva, al centro dell’opera di Tavernier è sempre una personalità in rottura perpetua con un ambiente, una situazione, un’atmosfera. I suoi film, apparentemente classici, risultano, al loro interno, pieni di dissonanze, proprio come i personaggi che li animano: in questo senso, l’intera filmografia del regista francese potrebbe esser letta sotto il segno del “doppio”, inteso come identico a sé (Descombes e Guibort in L’horloger / i gemelli Le Péron di Coup de torchon) o complementare (Filippo d’Orleans e Pontcallec di Que la fête commence / i fratelli Ladmiral di Un dimanche à la campagne). Le coppie in lotta, presentate come entità uniche e intere, costituiscono, in realtà, due metà di un’unica personalità scissa: gli anti-eroi di Tavernier, sempre in lotta con il mondo, fanno, allora, i conti non tanto con l’esterno quanto con la propria ambivalenza. E’ necessaria una sintesi tra i diversi aspetti: il Reggente deve integrare in sé Pontcallec, così come i fratelli Ladmiral possono imparare l’uno dall’altro. In quest’ottica, i personaggi “doppi” di Tavernier portatori, insieme, di senso come non senso e viceversa, da una parte, si oppongono ai canoni dell’arte tradizionale, che si illude di donare il senso, dall’altra, prendono le distanze anche dai cliché dell’arte di intrattenimento, che accompagna il senso, ignorando il non senso. Il regista francese, attraverso i suoi anti-eroi e i loro furori o le loro ritirate strategiche, si ostina, invece, a ricercare il senso come, insieme, non senso e dover-far-senso. In tal modo, dietro il cinema, si affaccia una tacita metafisica, l’estetica incontra l’etica: gli anti-eroi di Tavernier svelano il loro desiderio più autentico, quello di una sintesi tra i diversi aspetti di sé, che li renda persone intere, uomini e donne migliori


BIOGRAFIA

bertrand_tavernierBertrand Tavernier nasce in Francia, a Lione, il 25 aprile 1941, da una famiglia della media borghesia. Si accosta al cinema, nel 1961, come assistente  di J.P. Melville e, negli anni successivi, diviene addetto stampa del produttore Georges de Beauregard. Contemporaneamente, comincia a collaborare a “Positif” e ai “Cahiers” e realizza due primi cortometraggi. Nel periodo che va dal 1965 al 1972, Tavernier lascia de Beauregard e fonda una propria agenzia di promozione pubblicitaria con Pierre Rissient. Nel 1970 scrive, con Jean-Pierre Coursodon “Trente ans de cinèma americain”. Il 1973 è l’anno dell’esordio nel lungometraggio con L’horloger de Saint-Paul (L’orologiaio di Saint-Paul), Orso d’Argento a Berlino e premio Delluc. Dopo il successo dell’opera prima, gira tre film in tre anni: Que la fête commence (Che la festa cominci, 1975), Le juge e l’assassin (Il giudice e l’assassino, 1976), Des enfants gatés (I miei vicini sono simpatici, 1977). Nello stesso periodo (1975-77), fonda la “Little Bear”, una propria casa di produzione. Nel 1979, dopo l’insuccesso di Des enfants gatés, Tavernier gira in Scozia La mort en direct (La morte in diretta) poi ritorna a Lione per lavorare a Une semaine de vacances (Una settimana di vacanze, 1980). L’anno successivo soggiorna in Africa e gira Coup de torchon (Colpo di spugna, 1981) mentre nel 1983, negli Stati del Sud America, filma per la televisione il documentario Mississippi Blues. Nel 1984, il regista di Lione  partecipa al Festival di Cannes con Un dimanche à la campagne (Una domenica in campagna) e vince il premio per la migliore regia. Successivamente, è presente a Venezia con Round Midnight (A mezzanotte circa, 1986) e porta a termine, con la collaborazione di Riccardo Freda, La passion Béatrice (Quarto comandamento, 1987). Il 1988 è l’anno del ritorno a Lione, per girare con il padre, un documentario televisivo: Lyon le régard interieur (Lione, lo sguardo intimo). Seguono La vie et rien d’autre (La vita e nient’altro, 1989), film sulla Grande Guerra, e Daddy Nostalgie (1990). Nel 1992, Tavernier realizza, insieme a Patrick Rotman, La guerre sans nom (La guerra senza nome) un documentario sui reduci della guerra d’Algeria e, nello stesso anno, è presente al Festival di Venezia con L. 627 (Legge 627). Nel 1995, con L’appat (L’esca), vince l’Orso d’oro al Festival di Berlino e, l’anno seguente, ottiene il Gran premio della Giuria al Festival fiorentino “France Cinèma” con  Capitaine Conan (Capitan Conan). Del 1999 è Ça commence aujourd’hui (Ricomincia da oggi) sul malessere degli insegnanti e la povertà degli asili-nido nella Francia mineraria del Nord-Est. Tra i film più recenti, si ricordano: Laissez-passer (2002), Holy Lola (La piccola Lola, 2004), In the Electric Mist – Dans la brume électrique (L’occhio del ciclone, 2009).

©CultFrame 04/2010


FILMOGRAFIA

Cortometraggi

1963  Le baiser de Judas (Bacio di Giuda)
1964  Le jeu de la chance (Una chance esplosiva)
1983  La 800ème génération (L’ottocentesima generazione)
1983  Ciné citron

Lungometraggi

1973  L’horloger de Saint-Paul (L’orologiaio di Saint-Paul)
1975  Que la fête commence (Che la festa cominci…)
1976  Le juge et l’assassin (Il giudice e l’assassino)
1977  Des enfants gatés (I miei vicini sono simpatici)
1979  La mort en direct (La morte in diretta)
1980  Une semaine de vacances ( Una settimana di vacanze)
1981  Coup de torchon (Colpo di spugna)
1982  Philippe Soupault et le surréalisme (P. Soupalt e il surrealismo) – tv
1983  Mississippi Blues – doc.
1984  Un dimanche à la campagne (Una domenica in campagna)
1986  Autour de minuit – Round Midnight (A mezzanotte circa)
1987  La passion Béatrice (Quarto comandamento)
1988  Lyon, le regard intérieur (Lione, lo sguardo intimo) – tv
1989  La vie et rien d’autre (La vita e nient’altro)
1990  Daddy Nostalgie
1991  Contre l’oubli (film a ep. per Amnesty)
1992  La guerre sans nom (La guerra senza nome) – doc.
1992  L. 627 (Legge 627)
1994  La fille de D’Artagnan (Eloise – La figlia di D’Artagnan)
1995  L’appat (L’esca)
1996  Capitaine Conan (Capitan Conan)
1997  De l’autre coté du périph (Dall’altra parte del boulevard périphérique) – doc.
1999  Ça commence aujourd’hui (Ricomincia da oggi)
2001  Histoires de vies brisées: les “double peine” de Lyon ( Storie di vite spezzate: i “doppia
pena” di Lione) – doc
2002  Laissez passer
2004  Holy Lola (La piccola Lola)
2009  In the Electric Mist – Dans la brume électrique (L’occhio del ciclone)


IMMAGINI
1 Frame dal film L’orologiaio di Saint-Paul
2 Locandina del film Che la festa cominci
3 Frame dal film Colpo di spugna
4 Frame dal film Una domenica in campagna
4 Bertrand Tavernier

Mariella Cruciani

Mariella Cruciani è giornalista e critica cinematografica, collabora con Cinecritica (periodico del SNCCI) ed è redattrice di CineCriticaWeb. Scrive anche su Punto di Svista - Arti Visive in Italia. E’ direttrice responsabile di www.officinadellastoria.info, per la quale cura la sezione “cinema e storia”. Tra le sue pubblicazioni più recenti: l’e-book “Il cinema di Moretti” , Sette Città (2013), un saggio per il volume curato da S. Toffetti “Morale e bellezza. Marco Bellocchio”, Istituto Luce Cinecittà (2014).

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