Michael Haneke

Michael Haneke. 23 marzo 1942 (Monaco di Baviera)

michael_haneke-funny_gamesDopo due soli decenni di intensa attività cinematografica, il regista austriaco si è saputo imporre come uno degli autori più riconoscibili e riconosciuti dell’attuale panorama internazionale. Tale risultato si deve senz’altro alla singolarità del suo cinema, e poi al fatto di aver saputo uscire dall’orizzonte produttivo dei paesi di lingua tedesca, lavorando con continuità in Francia e di recente anche negli Stati Uniti. I consensi ottenuti in Francia, e quelli al Festival di Cannes, sono stati particolarmente importanti per la sua carriera, sino alla recente affermazione del suo ultimo film, Das weiße Band (Il nastro bianco) , candidato all’Oscar dopo aver vinto a Cannes una Palma d’Oro certamente meritata, benché fortemente voluta dalla sua complice e Presidente di Giuria Isabelle Huppert.
In seguito al clamore suscitato da Funny Games (1997), film cardine della filmografia dell’autore, si era subito cercato, anche in Italia, di studiare l’opera sino allora firmata da Haneke. Perciò, bisogna ancora oggi fare riferimento alla retrospettiva riservatagli nel 1998 dal 16° Torino Film Festival. In quest’occasione fu anche pubblicato il primo volume dedicato al regista edito nel nostro paese: si tratta di Michael Haneke, a cura di Alexander Horwarth e Giovanni Spagnoletti (Lindau, Torino 1998), comprendente anche una scelta di scritti dello stesso autore. Più recente, e ancora reperibile, è la monografia di Fabrizio Fogliato, La visione negata: il cinema di Michael Haneke (Falsopiano, Alessandria 2008).
Nessuno di questi volumi censisce le numerose regie teatrali di Haneke (che ha messo in scena testi di Strindberg, Bruckner, Goethe, Kleist, ecc.), preferendo rilevare le continuità del suo percorso di autore televisivo e cinematografico. Eppure egli si è confrontato anche in anni recenti con le trasposizioni, filmiche, di opere letterarie: da ricordare su tutte quella del 1993 da Die Rebellion di Joseph Roth, e quella fedelissima e personale al tempo stesso de Il Castello di Kafka, firmata nel 1997, due testi con più di un tratto in comune.

michael_haneke-nastro_biancoLa coerenza dei suoi primi lavori televisivi, poco reperibili in Italia, con le sue successive opere per il cinema è comunque evidente. In quel Torino Film Festival di dodici anni fa si videro anche il suo primissimo film per la tv, After Liverpool (1974), messa in scena di un radiodramma di James Saunders sull’incomunicabilità, Drei Wege zum See (1976), trasposizione di un racconto di Ingeborg Bachmann, l’ambizioso e autobiografico dittico generazionale di Lemminge (1979), e poi Variation (1983), Wer war Edgar Allan? (1985) da Peter Rosei, e infine Fraulein (1986), ‘meta-melodramma’ girato in pellicola e in bianco e nero.
Da allora a oggi, scopo del regista Haneke, con una coerenza d’autore tra le più notevoli del cinema contemporaneo, è semplicemente “il mostrare”: un esercizio di sguardo in cui è coinvolto profondamente anche lo spettatore. L’esperienza di regista televisivo appare fondamentale anche in questo senso come apprendistato poetico e tecnico dell’autore. Sui suoi primi set cinematografici veri e propri Haneke arriva infatti a quasi cinquant’anni, portandosi dietro un approccio produttivo “leggero” tipico della televisione e la precisa volontà di indagare il linguaggio visivo della contemporaneità tenendo conto dello spettatore a cui sono dirette le immagini da lui create: una pratica tutto sommato più codificata nel linguaggio televisivo, anche se per fini diversi da quello che si pone il regista austriaco, e cioè dare a vedere per provocare qualcosa di destabilizzante e traumatico.

michael_haneke-tempo_dei_lupiPer raggiungere questo suo scopo, Haneke cerca da sempre di evitare ogni psicologismo, le metafore troppo traslate o i racconti d’anticipazione, à la Cronemberg, anche se in film come Benny’s video prefigura la de-generazione webcam, e se Le temps du loup (Il tempo dei lupi, 2003) è ambientato in uno spazio-tempo imprecisato. Il suo nome s’impone in patria, e poi in Europa, per il tremendo rigore, documentario e insieme anti-realistico, con cui il regista lega le sue parabole alla società contemporanea austriaca, riconoscibile in tutto l’occidente. Sono esemplari in questo senso le tre opere tratte da casi di cronaca, nerissima, di quegli anni: parliamo di Der siebente Kontinent (Il settimo continente, 1989, presentato a Locarno), del collage televisivo Nachruf für einen Mörder (1991) e di 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls (71 frammenti di una cronologia del caso, 1994), cui si dovrebbe anche aggiungere Der Kopf des Mohren (1995), sceneggiatura non realizzata alla fine degli anni ’80, e poi diretta dal suo amico e attore Paulus Manker.
I tre titoli firmati da Haneke ricostruiscono altrettanti omicidi suicidi e mostrano come una quotidianità esposta al rumore continuo di radio e televisione, a sveglie e tran tran lavorativi di cui si ritrova sempre meno il senso, possa rompersi fragorosamente, quasi per caso, in “una nuvola d’ira” (avrebbe detto Arpino). La precisione drammatica di questo meccanismo, mostrato da Haneke per quel che è nei suoi passaggi logici e illogici, e l’ambientazione familiare alla maggior parte del pubblico, lasciano allo spettatore comune molti interrogativi, anche ingenui, da rielaborare durante e dopo la visione: se siano sempre le colpe dei padri a ricadere sui figli, o se forse non sia da escludersi anche il viceversa; se in tutti gli uomini si possa risvegliare da un momento all’altro un fondo ancestrale di violenza; se tutte le società generino mostri, quelle più permissive e quelle meno.

michael_haneke-settimo_continenteIn realtà, il cinema di Haneke vive di un respiro maggiore che da un lato intende l’arte come negazione e dall’altro ricostruisce, come si è detto citando Sartre, il continuo riemergere del non-essere nell’essere. E non è un caso che il giovane regista sia stato folgorato da un seminario universitario sul cinema di Bresson. Resta però il fatto che il discorso di Haneke è anche figlio della scuola di Francoforte, e ben centrato sulla società contemporanea, in cui il meccanismo che rompe l’equilibrio del nostro incerto vivere quotidiano è principalmente il suo corto circuito con le immagini e i simulacri in cui siamo perpetuamente immersi.
Tutto questo è raccontato in modo anche troppo cristallino in Benny’s video (storia di un ragazzino omicida per caso il cui rapporto con la colpa è davvero bressoniano) e nel dittico di Funny Games (storia delle violenze gratuite perpetrate da una coppia di giovani). La prima e la seconda messa in scena di questo film, replicato con una formula non inconsueta a un autore che ha fatto tanto teatro eppure quasi inedita al cinema, raggiungono il loro scopo in maniera netta e didascalica, grazie alla pulizia delle immagini, al grande equilibrio di ogni inquadratura, e al fatto di mostrare con tali forme il solo livello delle ‘azioni’ dei personaggi. Che sono però tali da sbriciolare ogni possibile ricezione passiva, cioè, e non è poco, da costringere lo spettatore a porsi in gioco sul piano emotivo e intellettuale.
Già nelle opere precedenti, Haneke aveva messo a punto un suo stile personale attraverso alcuni dispositivi ricorrenti: la camera fissa, d’impianto teatrale, modulata con la frammentazione di molte scene in dettagli, collage di flash i cui referenti principali sembrano essere certe sequenze di Hitchcock e di Antonioni; l’uso del nero a intervallare le unità narrative ma anche a interrogare lo spettatore, come soprattutto in Code Inconnu (Storie, 2000) ; l’uso attento del sonoro (ambientale e radio-televisivo) e quello parodico, di contrappunto, della musica, come per gli inni nazionali che aprono Die Rebellion (1993), per l’hard rock ascoltato da Benny nel film si cui è protagonista, o per la brusca alternanza tra musica classica e John Zorn nei due Funny Games.
Se c’è una critica che è stata mossa superficialmente al cinema di Haneke, per cui l’unico regista in grado di rappresentare in modo appropriato la violenza è stato Pasolini con Salò, è quella che anche i suoi stessi film veicolino immagini di morte. Grazie alle tecniche su accennate, le azioni violente sono sempre lasciate fuori campo dall’autore austriaco, a vantaggio del racconto delle loro conseguenze. Queste sì, sono da film dell’orrore, da incubo vero e proprio, alla cui miscela micidiale concorrono allo stesso modo realtà e finzione: nel mondo di Haneke, così simile al nostro, non c’è più salvezza né a giocare con le regole dell’una né a tentare quelle dell’altra senza la giusta consapevolezza del livello di alienazione di ogni esperienza umana a cui siamo ormai giunti, grazie al continuo straniamento con cui i media e le favole ideologico-religiose ci svendono la società contemporanea. Solo un cinema della negazione può mettere in critica questo automatismo di produzione e consumo, di cui non si riesce a vedere né l’inizio né la fine.

BIOGRAFIA

michael_hanekeNato per caso a Monaco di Baviera, dove i genitori si trovavano per lavoro, Michael Haneke è figlio di un’attrice teatrale austriaca di nobili origini ragusane (amica della madre di Romy Schneider, che frequenta da bambino) e di un regista e attore, anche televisivo. Cresciuto con la zia nella provincia austriaca di Wiener Neustadt, inizia a scrivere al liceo, trovando spazio su “Die Presse” e altri giornali locali come recensore letterario e cinematografico. Il giovane vorrebbe diventare pianista o attore, carriere che però è presto costretto ad abbandonare: a 17 anni prova invano l’esame di ammissione al Max Reinhardt Seminar, la più prestigiosa Accademia di arte drammatica di Vienna, città in cui frequenta invece la Facoltà di Filosofia e Psicologia, e i suoi primi corsi di cinema. Trova quindi lavoro in radio e, dopo varie esperienze, riesce ad avere un contratto come drammaturgo televisivo per una rete di Baden-Baden.
Il suo primo film per il cinema, che lo impone all’attenzione internazionale grazie alla buona accoglienza che riceve nel 1989 a Locarno, è Der siebente Kontinent (Il settimo continente). Nel 1997 partecipa per la prima volta al Festival di Cannes con Funny Games, nel 2001 ottiene il Gran Premio del Festival con La pianiste (La pianista) (oltre ai premi per i suoi due protagonisti, Benoit Magimel e Isabelle Huppert), nel 2005 quello per la miglior regia con Caché (Niente da nascondere)  e nel 2009 la Palma d’oro con Das weisse band (Il nastro bianco).
Si è anche dedicato all’insegnamento alla Vienna Film Academy e alla regia d’opera con la controversa messa in scena del Don Giovanni (2006), che dovrebbe essere seguita nel 2012 da un suo annunciato Così fan tutte. Vive buona parte dell’anno nella piccola cittadina di Katzelsdorf.

© CultFrame 04/2010


FILMOGRAFIA

Regista e sceneggiatore
1974 …Und Was Kommt Danach? / After Liverpool (Tv, da un radiodramma di James Saunders)
1976 Sperrmüll (Tv, da uno script di Alfred Bruggmann)
1976 Drei Wege zum See (Tv, da un racconto di Ingeborg Bachmann)
1979 Lemminge, Teil 1 Arkadien (Tv)
1979 Lemminge, Teil 2 Verletzungen (Tv)
1983 Variation (Tv)
1985 Wer war Edgar Allan? (Tv, da Peter Rosei)
1986 Fräulein – Ein Deutsches Melodram (Tv)
1989 Der siebente Kontinent (Il settimo continente)
1991 Nachruf für einen Mörder (Tv)
1992 Benny’s Video
1993 Die Rebellion (Tv, da Joseph Roth)
1994 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls (71 frammenti di una cronologia del caso)
1995 Lumière et compagnie (un episodio di 52’’)
1997 Das Schloss (Il Castello, da Franz Kafka)
1997 Funny Games
2000 Code Inconnu – Récit incomplet de divers voyages (Storie)
2001 La pianiste (La pianista, da Elfriede Jelinek)
2003 Le temps du loup (Il tempo dei lupi)
2005 Caché (Niente da nascondere)
2007 Funny Games / Funny Games U.S. (Funny Games – Possiamo iniziare?)
2009 Das weiße Band (Il nastro bianco)
2012 Amour

Sceneggiatore per regie altrui
1985 Schmutz di Paulus Manker
1993 Kesseltreiben di Peter Schulze-Rohr  (episodio della serie tv Tatort)
1995 Der Kopf des Mohren di Paulus Manker

Attore
1996 Charms Zwischenfälle di Michael Kreihsl


IMMAGINI

1 Frame dal film Funny Games
2 Frame dal film Il nastro bianco
3 Frame dal film Il tempo dei lupi
4 Frame dal film Il settimo continente
4 Michael Haneke

Claudio Panella

Claudio Panella, Dottore di ricerca in Letterature e Culture Comparate, si interessa in modo particolare alle interazioni tra la letteratura e le arti, alle trasfigurazioni letterarie del paesaggio e della città, alle rappresentazioni del lavoro industriale e post-industriale nella letteratura italiana ed europea. Attualmente è redattore di Punto di Svista - Arti Visive in Italia e CultFrame - Arti Visive.

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