L’apparente solitudine dei cineasti italiani ⋅ 67. Biennale Cinema Venezia

SCRITTO DA
Maurizio G. De Bonis
Frame dal film Noi Credevamo di Mario Martone

Anche questa 67° edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia sì è conclusa con un nulla di fatto per la cinematografia italiana. Quattro film nel concorso (Noi credevamo di Mario Martone, La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo, La pecora nera di Ascanio Celestini e La passione di Carlo Mazzacurati) mandati un po’ allo sbaraglio in un contesto che vedeva Quentin Tarantino come Presidente della Giuria e, in competizione, autori come Sofia Coppola, Takashi Miike, Monte Hellman e Alex de la Iglesia che sembravano molto più vicini alla mentalità tarantiniana dei cineasti  italiani sopra elencati. E infatti abbiamo visto come è andata a finire.
Ma la questione non riguarda certo le scelte di Marco Müller, che fa autentici salti mortali per far vedere titoli italiani in concorso e che svolge uno dei lavori più difficili e complessi nell’ambito del mondo del cinema (solo chi ha diretto un festival può saperlo), quanto piuttosto la realtà dello stato della nostra cinematografia.
Su quest’ultimo punto siamo chiamati a riflettere, sulla qualità dei nostri prodotti e sull’inevitabile confusione che eventi cinematografici come la Mostra del Cinema di Venezia generano (non volendo) nei non addetti ai lavori. Saremo più precisi.

Prendiamo i due lungometraggi di Martone e Costanzo. Ciò che è venuto fuori dal concorso del Lido è il silenzio assoluto della giuria, un silenzio che certo non farà bene a due opere che avrebbero avuto grande pubblicità grazie a un eventuale premio. Noi credevamo e La solitudine dei numeri primi sono, dunque, accomunati dal medesimo destino festivaliero, ma proprio questo “medesimo destino? è la cartina di tornasole del “pasticcio? culturale che può generarsi nell’ambito di un Festival.
I due lavori sono diametralmente opposti: quanto uno è rigoroso, profondo, ricco di tensione storico-politica, ovvero Noi credevamo, tanto l’altro è sovraccarico, caotico espressivamente vittima di un citazionismo arido e sfrenato, banale, ovvero La solitudine dei numeri primi.

Il grande affresco del Risorgimento portato a termine da Martone è un’opera matura, seria, un film in cui si apprezzano severità formale, limpidezza espressiva, l’elegante recitazione, l’assenza di derive estetizzanti. Anche lo sguardo sulla storia del nostro paese è di acuta lucidità, mai banalmente nazionalistico e retorico. Questi ingredienti stilistici e linguistici hanno consentito a Noi credevamo di manifestarsi al pubblico del Lido come un lavoro di spessore raro in una cinematografia italiana sempre più provinciale, miope e priva di idee e di memoria.

La solitudine dei numeri primi è invece una pellicola inquinata da un eccesso di elementi registici e di riferimenti cinematografici. Ogni sequenza è carica, ridondante e quando le inquadrature e i movimenti di macchina sembrano ritornare alla semplicità di una messa in scena personale ecco venire fuori con prepotenza ingombranti e imbarazzanti citazioni, da Dario Argento a Michelangelo Antonioni, fino addirittura a Stanley Kubrick. Saverio Costanzo ha voluto strafare e probabilmente, un po’ a corto di idee, ha finito per saccheggiare alcuni importanti autori del cinema del Novecento. Il risultato finale è un lungometraggio superficiale e frammentario che non aggiunge nulla alla carriera di un autore che, a nostro modesto parere, è stato sopravvalutato.

Ebbene, nonostante l’abisso che divide i due lungometraggi, ciò che viene fuori è che Noi credevamo e La solitudine dei numeri primi hanno fatto entrambi flop a Venezia. Questa immagine speculare è quanto di più lontano dalla realtà si possa immaginare per i motivi che abbiamo sopra evidenziato. Ma il problema non è tanto questo, quanto piuttosto una campagna giornalistica morbida che non evidenzia con chiarezza il diverso spessore delle opere e che consegna, con questo atteggiamento, entrambi i registi a una reale solitudine artistica. Perché anche le critiche circostanziate (nel caso ad esempio del lavoro di Costanzo) potrebbero essere utili per non far sentire un giovane autore come una zattera alla deriva in mezzo all’oceano.
Ma dovete scusarmi, dimenticavo: Costanzo ha dalla sua una potente corazzata distributiva, ovvero Medusa. Quindi, solo non sarà. Così va la vita.

© CultFrame – Punto di Svista 09/2010

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Maurizio G. De Bonis

Maurizio G. De Bonis è critico cinematografico e delle arti visive, curatore, saggista e giornalista. È direttore responsabile di Cultframe – Arti Visive, è stato direttore di CineCriticaWeb e responsabile della comunicazione del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani. Insegna Cinema e immagine documentaria e Arti Visive Comparate presso la Scuola Biennale di Fotografia di Officine Fotografiche Roma. Ha pubblicato libri sulla fotografia contemporanea e sui rapporti tra cinema e fotografia (Postcart), sulla Shoah nelle arti visive (Onyx) e ha co-curato Cinema Israeliano Contemporaneo (Marsilio). Ha fondato il Gruppo di Ricerca Satantango per il quale ha curato il libro "Eufonie", omaggio al regista ungherese Bela Tarr. È Vice Presidente di Punto di Svista - Cultura visuale, progetti, ricerca.

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