Una landa desolata, arida. Alcuni uomini camminano lentamente. Sulle spalle hanno dei fagotti ingombranti. Sembrano fantasmi, privi di direzione, privi di identità. Arrivano a dei dormitori luridi scavati nel terreno. Giacigli fetidi sui quali si adagiano, senza più speranze, come già morti.
I brani iniziali di The Ditch, film del cineasta cinese Wang Bing, sono folgoranti e assolutamente misurati. Così come è rigorosa l’intera impostazione linguistica di questo lungometraggio che prova a raccontare ciò che probabilmente raccontabile non è.
Ancora una volta il cinema si misura con la raffigurazione dell’universo concentrazionario. Non si tratta dei campi di sterminio nazisti, neanche dei gulag sovietici o degli stadi sudamericani. Questa volta l’orrore è organizzato, costruito e messo in pratica in Cina. Un campo di rieducazione nel quale uomini costretti a scavare un fossato senza senso iniziano a morire, lentamente. Un destino crudele per chi è lontano da casa e, oltretutto, non ha commesso alcun delitto nei confronti della rivoluzione socialista.
Wang Bing ha uno sguardo cinematografico severo e allo stesso tempo toccante, non eccede, non mostra mai (troppo) ciò che di orribile produce il campo di prigionia. Si accosta al dolore e alla morte con una delicatezza espressiva che rispetta integralmente le vittime (reali) della scellerata opera di rieducazione che per decenni è stata messa in atto dal Partito Comunista Cinese. Pur mostrando uomini ridotti a bestie (alcuni per sopravvivere mangiano il vomito altrui, mentre altri addirittura i cadaveri dei compagni appena morti), elabora un tessuto visuale che rispetta la tragedia di individui privati della loro umanità.
La macchina da presa è spesso a spalla, appare leggermente ondeggiante ma non genera in nessun caso inquadrature sconnesse e sghembe. Wang Bing sceglie la pulizia formale e l’equilibrio visivo per non sovraccaricare una vicenda già così drammatica di fattori disturbanti con elementi estetici e stilistici in grado di sovrapporsi alla significativa questione drammaturgica.
Anche il terribile e disperato tentativo d fuga finale è girato con sublime equilibrio, quasi con freddezza. È proprio questo distacco, questa apparente (ma non sostanziale) distanza, che non produce facili e volgari emozioni nello spettatore, a caratterizzare l’intero lungometraggio e a chiudere un’opera che mostra ma non rappresenta, che denuncia ma non ricostruisce banalmente, che analizza lucidamente la crudeltà umana senza mai spettacolarizzarla.
© CultFrame 09/2010
TRAMA
1960. Deserto del Gobi. Il Partito Comunista Cinese ha organizzato dei campi di rieducazione del deserto del Gobi. Migliaia di uomini vengono mandati ai lavori forzati e molti finiscono per morire di fame, stenti, malattie. Un giorno la moglie di uno di loro riesce ad arrivare al campo dove e detenuto il marito, chiedendo di poterlo incontrare. Scoprirà che il suo uomo è morto otto giorni prima del suo arrivo. Il suo corpo è sepolto nel deserto.
CREDITI
Titolo: The Ditch / Titolo originale: Le fossé / Regia: Wang BIng / Sceneggiatura: Wang Bing / Fotografia: Lu Sheng / Montaggio: Marie_Hélene Dozo / Scenografia: Zhang Fuli / Interpreti: Lu Yo, Lian Renjun, Yang Haoyu / Produzione: K. Lihong, Mao Hui, Wang Bing, Philippe Avril, Francisco Villa-Lobos / Anno: 2010 / Origine: Francia, Belgio / Durata: 105 minuti
LINK
Filmografia di Wang Bing
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia