Giunto ormai alla sua cinquantaquattresima edizione, il London Film Festival è uno dei più importanti eventi cinematografici del Regno Unito. Nato inizialmente per dotare Londra di una propria rassegna, che potesse tener testa a quelle già affermate di Cannes e Venezia, ben presto il festival è divenuto non solo vetrina delle migliori proposte nazionali ed internazionali, ma ha cominciato ad ospitare al suo interno documentari, corti di animazione, cinema indipendente e sperimentale, tramutandosi in trampolino di lancio per registi ed artisti emergenti.
Dal 1998 il cinema sperimentale e di avanguardia possiede una propria sezione, intitolata Experimenta, nata per presentare in maniera organica al grande pubblico i lavori più radicali ed innovativi.
Il tema di quest’anno, che ha accomunato sia lungometraggi che la kermesse di corti e video d’arte, è quello del movimento, inteso come viaggio, esplorazione e dislocazione spazio-temporale.
Elementi presenti in uno dei lavori più significativi della sezione, The Nine Muses di John Akomfrah. Il film è un racconto poetico dell’immigrazione nel Regno Unito del secondo dopoguerra, in particolare da paesi dei Caraibi e dell’Asia, ma il tema viene esteso in maniera evocativa ad altre migrazioni, ad altre avventure, a partire da quella mitica di Ulisse.
Nononostante l’utilizzo di interessanti materiali di archivio, qui non si tratta assolutamente di un documentario sociologico. La struttura della narrazione è fornita dal mito Greco delle Nove Muse, rappresentanti delle Arti, nate dall’unione di Zeus e Mnemosine, o Memoria. La cornice visiva del viaggio è data da un bellissimo paesaggio innevato, nelle cui distese silenziose si avventurano figure solitarie, destinate a non incontrarsi mai e definite solo dagli abiti pesanti e dalle sgargianti giacche a vento. Questi peregrinazioni tra neve e ghiaccio, in cui note di colore vengono inserite metaforicamente in un continuum monocromatico, si alternano a filmati di archivio, per la maggior parte in bianco e nero, di un periodo compreso tra il 1952 e il 1981, e a scene di riflessione, girate in zone portuali e industriali, molte delle quali connesse con la tratta degli schiavi, e che vedono come protagonista silenzioso il sociologo Colin Prescod.
La selezione sonora del film è altrettanto accurata ed eclettica, e consiste di suoni e musiche diverse, da Shubert alla tradizione Indiana. A queste, si intrecciano stralci di opere letterarie, tutte accomunate dal viaggio: si va dall’Inferno di Dante al Paradiso Perduto di Milton, passando per l’Ulisse di Joyce e l’Odissea di Omero. Il risultato è un racconto di quei viaggi della speranza che hanno trasformato il mondo e la società, ma più che riferire una storia, The Nine Muses racconta una saga, un mito.
L’intenzione non è infatti quella di far pervenire allo spettatore un mero documento storico, un saggio di sociologia, ma di renderlo partecipe di quel senso di smarrimento, sradicamento e alienazione suscitato dall’esperienza stessa dell’emigrazione. Ogni viaggio inizia con un passo, e la ripetizione di singoli passi segna il tragitto.
Questo è sicuramente il senso della rassegna di cortometraggi d’artista, quasi tutta concentrata in un fine settimana, curata da Mark Webber. Una rassegna che, inserita all’interno del festival, avvicina il cinema d’avanguardia ad un pubblico diverso.
Nel vasto programma di quest’anno si segnalano due selezioni interessanti. La prima, dal titolo Sublime Passages, raccoglie lavori che hanno come tema il movimento e la trasformazione attraverso la natura e il paesaggio. Ne fanno parte le atmosfere misteriose delle eclissi solari di Alexi Manis (Shutter, 2009), i poetici racconti di mare e di naufragi di Rebecca Meyers (Blue Mantle, 2010), e le prospettive invertite di Inger Lise Hansen (Travelling Fields, 2010), con distese desolate e blocchi di cemento a creare un cielo inquietante.
L’altra selezione, intitolata Break on Through, è invece una riflessione filosofica su trasformazione e transitorietà, che di per sé costituiscono un viaggio, sebbene rivolto per la maggior parte all’interno. E’ qui che si scorgono i lavori più audaci. A partire dal corto di Janie Geiser (Ghost Algebra, 2009), poetico e quasi vittoriano nei ritagli di carta che prendono vita, estrapolati da libri di medicina, storia e ornitologia, e che si presentano agli occhi di una figurina solitaria, della quale seguiamo il percorso surrelae. Riflessioni sul passato che sono riprese e amplificate da altri lavori, come il piccolo gabinetto di curiosità filmato da David Gatten (So sure of Nowhere, 2010) e il monumentale Forms are not self-subsistent substances (2010) diretto da Samantha Rebello , in cui la filosofia di Aristotele è un filo invisibile, che si intreccia a storie di pietra scolpite nei muri di una cattedrale romanica, a passi umani su antichi gradini, agli animali delle miniature medievali che si trasformano in particolari ingranditi, desunti dalla realtà.
La sezione Experimenta di quest’anno si è posta senz’altro come meditazione intensa su ciò che è tangibile e leggibile di un viaggio, fornendo strumenti originali per investigare la fisicalità spazio-temporale del movimento, e il processo ontologico di trasferimento di sé, tanto nella realtà materiale quanto cinematografica.
© CultFrame 10/2010
IMMAGINI
1 Frame del film The Nine Muses di John Akomfrah
2 Frame del film Travelling Fields di Inger Lise Hansen
INFORMAZIONI
BFI The Times London Film Festival, 54esima edizione
Dal 13 al 28 ottobre 2010
BFI Southbank / Belvedere Road, South Bank Waterloo ed altri cinema a Londra
Info: +44 (0)20 7928 3232
LINK
BFI, Londra