Ci sono malattie che prima di annientare gli individui provano a tranciarne i legami affettivi. Lino e Chicca sono una coppia non più giovane, ma salda e felice, fino a quando in lui non si manifestano amnesie e sfasamenti causati da un’incipiente degenerazione delle cellule cerebrali. “Alzheimer”, la diagnosi dei dottori. Un male subdolo, che agisce sulla personalità di chi ne viene colpito mettendo a dura prova anche i sentimenti delle persone vicine al malato. Un male tanto devastante quanto ormai sempre più diffuso, al quale la società reagisce con l’isolamento dei pazienti nelle case di cura. A questa prassi comune Chicca, interpretata da una Francesca Neri invecchiata di vent’anni col trucco di scena, non si arrende, così decide che a fare da sfondo all’insinuarsi del morbo nella vita del marito continueranno a essere i loro luoghi e la loro storia d’amore.
Pupi Avati torna al grande schermo con un tema quanto mai attuale e difficile da affrontare, e riesce a farlo con coraggio e delicatezza estrema. Il peso sociale della malattia si avverte in pieno pur senza che sia messa in scena la disperazione. C’è grande pudore nello stile della recitazione e nelle scelte della regia che scava nelle fragilità dei protagonisti schivando il rischio di incappare nell’esasperazione e di risolversi nel sentimentalismo rapace. La sceneggiatura, che Avati ha tratto da un suo stesso romanzo uscito in contemporanea al film, volutamente non lascia spazio al senso dello scoramento. Il racconto, piuttosto, si muove in equilibrio sui fili che regolano i legami coniugali e le eventuali e dolorose trasformazioni che questi spesso subiscono per cause che non derivano dalla volontà degli individui. Della malattia, Avati rimarca l’inesorabilità, il potere assoluto di stravolgere la quotidianità delle persone e di chi le circonda, i risvolti paradossali che generano situazioni dall’apparenza anche talvolta comica, ma dal significato profondamente triste. La grande dignità dei due protagonisti non basta a contrastare la crudeltà del morbo che li trascina in situazioni imbarazzanti, ai limiti dell’assurdo. Tuttavia, le loro figure riescono a trionfare per la spiccata umanità che portano con sé. Il regista bolognese si distacca dal pietismo scontato e racconta con garbo una realtà sconvolgente senza strumentalizzarla. E se anche è vero che il contesto in cui il film inquadra il problema dell’Alzheimer è quello di una coppia molto agiata, bella e istruita dell’alta borghesia romana, non per questo ne offre una visione patinata.
Alternando al presente della narrazione i flashback dalla fotografia stinta in cui il protagonista, un penetrante Fabrizio Bentivoglio, rivive l’infanzia trascorsa nelle campagne nebbiose dell’Emilia, Avati instilla un po’ del suo passato biografico nel racconto; allo stesso tempo si divincola dall’insidia dell’autoreferenzialità grazie all’intelligenza dello sguardo che dà a quelle immagini sbiadite il sapore di ricordi universali. Il mondo infantile in cui Lino regredisce lentamente e in cui riesce a trascinare anche la moglie in un rinnovato ruolo materno è sì la manifestazione palese della sconfitta che l’Alzheimer ha inflitto loro, ma è insieme anche la più dolce via di fuga e di protezione per l’uomo e per il loro rapporto di coppia. Un senso di nostalgia pervade l’intero lungometraggio. A infonderlo, una recitazione che emoziona senza lasciare spazio alla commozione facile, insieme al valore che i ricordi del protagonista assumono sul piano narrativo. Ma soprattutto, la nostalgia emerge dalla forza evocativa di certe scene in cui si esaltano l’importanza del gioco e il senso della magia vissuti a qualsiasi età: Lino bambino che gioca coi tappi, Lino che con quegli stessi tappi ricomincia a giocare da vecchio e malato costruendo piste nel salone della sua lussuosa casa, Lino che a quel gioco riesce a far appassionare anche la sua Chicca. Perché Una sconfinata giovinezza è effettivamente un film sul gioco, sulla magia, e su tutte le possibili declinazioni dell’amore.
Un ruolo centrale in quest’ultimo lavoro di Pupi Avati spetta ai dialoghi. Le scene aggiungono poesia e incisività ai significati veicolati dalle parole e si appoggiano a una regia pulita, refrattaria allo sfoggio di virtuosismi che risulterebbero superflui. Fondamentale la recitazione matura e strutturata della Neri e di Bentivoglio, carica di tenerezza e turbamento. Con questa sua ennesima prova, Pupi Avati affronta con disinvoltura un argomento originale nel contesto dell’attuale cinematografia italiana, e che allo stesso tempo tocca da vicino la vita di moltissime famiglie.
Ci si chiede come mai quest’opera non abbia potuto trovare un suo collocamento nel concorso della recente Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
© CultFrame 10/2010
TRAMA
La vita serena di un’insegnante universitaria e di un giornalista sportivo di successo viene turbata dalle improvvise perdite di memoria di lui, che si rivelano il sintomo del morbo di Alzheimer. Le sue condizioni si aggravano al punto da renderlo incapace di continuare a lavorare, e l’uomo regredisce lentamente nello stato di infantilismo che la malattia comporta. La moglie sceglierà per amore di non abbandonarlo in una casa di cura, convincendosi di poter vedere in lui il figlio che non hanno mai avuto, con i rischi che questa scelta comporta.
CREDITI
Titolo: Una sconfinata giovinezza / Regia: Pupi Avati / Soggetto e sceneggiatura: Pupi Avati / Fotografia: Pasquale Rachini / Montaggio: Amedeo Salfa / Scenografia: Giuliano Pannuti / Musiche: Riz ortolani / Interpreti: Fabrizio Bentivoglio, Francesca Neri, Serena Grandi, Gianni Cavina, Lino Capolicchio, Brian Fenzi / Produzione: Antonio Avati per Duea Film / 01 Distribution / Italia, 2010 / Durata: 98 minuti
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CULTFRAME. Il nascondiglio. Un film di Pupi Avati
Sito ufficiale del film Una sconfinata giovinezza di Pupi Avati
Filmografia di Pupi Avati
01 Distribution