Che aria tira nel mondo della fotografia italiana? Quali sono i messaggi che trovano spazio sugli organi di informazione del nostro paese?
Se lasciamo da parte il mondo delle riviste specializzate, che istituzionalmente è costretto a produrre contenuti su un settore che ha scarsa visibilità sui mass-media generalisti, ci accorgiamo che è possibile leggere ben poco e che quel poco che rintracciamo faticosamente ne La Repubblica o nell’inserto domenicale del Sole 24 Ore veicola idee parziali (ma questa non è una colpa), punti di vista su cui, di volta in volta, si può essere democraticamente d’accordo o meno. Tali punti di vista sono spesso lanciati nel mare magnum dell’informazione cartacea non specializzata e sono abbandonati lì, alla deriva, nell’oceano nullificante della solitudine culturale (non per causa loro, certamente) che li avvolge. È solo il confronto dialettico/pubblico in grado di far diventare quello che è un punto di vista (del tutto legittimo, si intende), un luogo di confronto e di dialogo. E Punto di Svista ci prova sempre nella convinzione che agire nella dialettica sia sempre e comunque un valore culturale imprescindibile.
Eccoci, dunque, a tentare di stabilire un punto di contatto con un corposo e vivace articolo di Michele Smargiassi pubblicato su La Repubblica il 29 dicembre 2010. Il titolo e il sottotitolo sono molto chiari: “Lo scatto del dilettante – Se la vera storia della fotografia la fanno i nostri album”. Il pezzo ha occupato un’intera pagina di R2-Cultura e rappresenta una sorta di visione personale sulla Storia della Fotografia da parte del giornalista de La Repubblica. Da notare che l’autore dell’articolo ha ripubblicato il suo approfondimento sul suo blog Fotocrazia e dunque riconosciamo a Smargiassi il merito di non essersi limitato a lasciare il suo pensiero alla deriva nell’ambito dell’informazione cartacea.
Ma procediamo con ordine. Diciamo subito che il testo in questione ci ha fatto riflettere su una determinata tendenza che sta prendendo piede in Italia, una tendenza la cui natura è a nostro avviso non condivisibile.
Michele Smargiassi si lancia in una riflessione nella quale si sostiene che, di fatto, le opere dei grandi fotografi non abbiano nulla di significativo rispetto alle immagini scattate da sconosciuti che documentano la loro vita privata e quella dei loro familiari.
L’attacco, molto deciso, procede con frasi come la seguente: “Le foto che per gli studiosi hanno fatto la storia… sono solo un’infima minoranza rispetto ai miliardi di fotografie che il mondo ha visto e ha amato davvero in questi centosett’anni. La fotografia che, dopo la rivoluzione Kodak, ha riempito la vita di milioni di famiglie non è quella che si vede nei musei: è quella dei weekend di vacanza, degli album d famiglia, delle prime comunioni, dei viaggi…”. Ed ancora: “le foto più viste oggi non sono i giocattolini concettuali di artisti annoiati ma i sette milioni di scatti di fotofonini caricati ogni giorno su Facebook”. E infine: “Fare la storia della fotografia è raccontare come la tecnologia ha trasformato ognuno di noi in un produttore e assieme in un consumatore di immagini operative e non speculative”.
Le affermazioni che abbiamo isolato rappresentano solo degli estratti di un articolo molto lungo che ovviamente non possiamo riportare per intero e che avrebbe meritato tante risposte quanti sono i concetti, scritti con molta convinzione, da Michele Smargiassi.
Dire che la fotografia che è riuscita a riempire la vita delle famiglie sia quella privata è ovvio. E allora? Sarebbe come sostenere che i prodotti audiovisivi a cui la gente è più affezionata sono i video girati in vancanza piuttosto che i film di Ingmar Bergman o di Michelangelo Antonioni. Scrivere che gli artisti che utilizzano la fotografia creino dei “giocattolini concettuali” e siano “annoiati” appare una frase gratuitamente sprezzante e vacua, poiché, oltre che non essere supportata da un’argomentazione strutturata, esaurisce il suo senso nel giudizio inappelabile che veicola. Utilizzare una frase del genere significa assumersi la responsabilità culturale di fare di tutt’erba un fascio. Possibile che tutti, ma proprio tutti, gli artisti siano annoiati? Possibile che gli autori di fotografia realizzino solo “giocattolini concettuali”? Cosa si cela realmente dietro questo disprezzo nei riguardi della fotografia autoriale? E poi, perché mai una storia della fotografia dovrebbe privilegiare le immagini operative (ma che vuol dire operative?) e non quelle speculative? In base a quale principio critico/storico bisognerebbe operare in tale senso? Esistono forse delle immagini che non siano speculative?
La posizione di Smargiassi ci sembra troppo semplicistica. Vengono, infatti, messe insieme questioni diverse che andrebbero collegate in un contesto culturale più elastico. Sostenere che l’uso di massa della fotografia sia il vero elemento di interesse di questa forma di espressione ci lascia interdetti. Ciò ha il sapore di una visione vagamente populistica. Si tratta, infatti, di un luogo comune consolatorio e ammiccante, di gran moda ai giorni nostri. Esattamente come il cinema è industria commerciale, linguaggio, arte, così la fotografia ha al suo interno componenti differenti, ognuna con la sua dignità. Le convinzioni di Smargiassi potrebbero alludere a una presa di distanza da una concezione elitaria propagandata dalla fotografia artistica. Ma è proprio il suo modo di concepire la “vera storia della fotografia” a nostro avviso a essere snob, al contrario.
Se da una parte siamo d’accordo che la fotografia non possa essere ridotta a una sterile “museizzazione” e a una noiosa “accademizzazione”, appare però priva di senso una generalizzazione che pone su un piedistallo la fotografia “privata” e non artistica e svuota di significato il complesso rapporto che esiste (perché esiste) tra fotografia, filosofia, poesia ed estetica.
A noi sembra che dalla visione del giornalista de La Repubblica emerga il problema di sempre della fotografia e di chi ne scrive sui quotidiani: il tentativo autolesionistico di incatenare questa forma di espressione, allo stesso tempo bassa, commerciale, poetica e artistica, alla sola dimensione sociologica e comunicativa.
E perché mai bisognerebbe ragionare solo così? Perchè gli artisti che usano la fotografia devono essere sminuiti in tal misura? Sarebbe come dire che siccome molti appassionati di arte figurativa dipingono la domenica sia più emozionante edificare la storia dell’arte attraverso i prodotti di questi ultimi piuttosto che grazie ai percorsi espressivi di Caravaggio, Renoir, Picasso e Pollock.
Il nostro parere è che la fotografia è un grande, libero, contenitore pieno di flussi che si sfiorano e a volte si intrecciano e che andrebbero analizzati con lucidità e non con prese di posizione “lapalissiane” come quelle di chi ha deciso che “le solarizzazioni di Man Ray” e “i ritratti di nadar sono un’infima minoranza rispetto ai miliardi di fotografie che il mondo ha visto”. Ciò non vuol dire nulla criticamente e storicamente e non porta nulla di nuovo alla crescita della cultura fotografica. E’ così scandaloso fare dell’arte con la fotografia? E’ cosi intollerabile considerare la fotografia di massa un fatto sociologico da studiare approfonditamente che non abbia per forza un valore maggiore rispetto alle applicazioni artistiche della disciplina in questione?
Nell’impostazione di Smargiassi si manifesta un’evidente “sfocatura culturale” che non può che far male alla fotografia e che invece, certo senza alcuna consapevole e razionale volontà da parte del giornalista, farà molto bene a tutte le multinazionali che producono smartphone e macchine digitali.
Così tutti saranno autorizzati a dire: siamo fotografi e come tali entreremo nella “vera storia della fotografia”. Evviva.
© CultFrame – Punto di Svista 01/2011