Lo sviluppo planetario delle webcam, posizionate per osservare lo spazio urbano nella più assoluta indifferenza della gente che passa, pone molte e inedite questioni, sia di carattere etico che professionale, a quanti operano nel mondo della comunicazione, consapevoli che questi strumenti hanno potenzialità che vanno ben oltre gli scopi immaginati, per arrivare ad essere proiezioni virtuali dei nostri sguardi sulla realtà. Queste postazioni che operano in automatico, caratterizzate dalla variabilità del punto di vista e da una bassa risoluzione, in azione ventiquattro ore su ventiquattro, fanno emergere una nuova dimensione della vita metropolitana dominata dalla figura del “passante” che non incrociamo per strada o intravediamo dai tavolini di un caffè, ma che entra nel nostro privato come frammento di una storia tradotta per immagini.
In virtù di ciò, nuovi stili di lavoro si stanno affermando con lo sviluppo di piattaforme operative libere da pregiudizi pronte a cogliere il soggetto tra le cosiddette “situazioni invisibili” caratterizzate da una accentuata permeabilità connaturata al loro essere entità anonime, di passaggio, prive di barriere protettive, quindi, assolutamente indifese. Come performer inconsapevoli, senza una percepibile tensione emotiva, i “passanti” ruotano attorno alle loro inquietudini come se appartenessero ad un qualsiasi reality show. Un automatismo espressivo e gestuale riconducibile ad un non senso performativo che, una volta registrato, può essere letto anche come archivio segnaletico dell’uomo metropolitano identificabile, per i suoi comportamenti, secondo categorie sociali riconoscibili e collocabili nelle diverse ore della giornata.
Sono momenti segnati dall’assenza di ogni coinvolgimento del singolo o del gruppo, di vuoto di dati certi immediatamente riscontrabili e decifrabili, di attese che possono essere colte utilizzando indicatori sensibili in grado di registrare il mentre accade, il già accaduto o in procinto di accadere. Il tempo è misurato non dalla durata dello scatto, quanto dall’intervallo delle riprese in una selezione non predeterminata. Quelle che irrompono sui nostri schermi sono entità fenomeniche, segmenti di un flusso probabilistico che non ammette repliche e che produce, al suo interno, un numero n di variabili che potranno essere assunte, a posteriori, come ipotesi per nuove configurazioni dell’esistente.
Decidere di fermare un’immagine, scomporla, ingrandirla, intervenire su di essa mediante procedimenti di stampa, in parte manuali, significa ritornare a metodologie operative artigianali, non seriali, che nella loro rituale gestualità ci permettono di entrare nella dimensione di un tempo lento dove lo sguardo è libero di vagare riconoscendo la dignità della memoria racchiusa in ogni singola foto.
© CultFrame – Punto di Svista 11/2011
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