Idee, concetti e direzione dell’atto creativo

SCRITTO DA
Maurizio G. De Bonis

Gilles DeleuzeCosa è la fotografia? Intorno a questa domanda è possibile stilare una serie di risposte, a mio avviso, tutte degne e possibili. Così come il cinema, la fotografia è disciplina complessa, in grado di spingere le sue ramificazioni in altri contesti, in altri ambienti espressivi. Ma allo stesso tempo è territorio attraversato da innumerevoli elementi provenienti dall’esterno, e ognuno di questi è generatore di un’ulteriore dimensione enigmatica. In sostanza, da qualunque parte la si prenda la fotografia restituisce una faccia diversa di sé, e a volte queste facce sono in contraddizione tra loro.

Personalmente, ho sempre avversato duramente la concezione della disciplina fotografica intesa come “luogo” deputato esclusivamente alla rappresentazione della realtà, meno che mai degli eventi sociali e della storia, così come mi sono però sempre domandato se sia possibile ricondurre la fotografia a un mero discorso linguistico/semiologico. E mi chiedo ancora: è così significativo analizzare il procedimento fotografico per comprendere la natura della fotografia? Ebbene, tutti questi fattori (che certamente possono contribuire alla comprensione e all’approfondimento e possono rivelarsi importanti) sembrano ruotare intorno a quelli che per me sono i due cardini della riflessione sulla fotografia.
Il primo è riassumibile in questa affermazione: il problema non è tanto capire cosa è la fotografia quanto piuttosto comprendere cosa vuol dire esprimersi attraverso la fotografia.
Il secondo cardine parte invece da un’altra personale constatazione: l’immagine fotografica, qualunque sia l’impianto analitico/culturale attraverso il quale la si studia, è qualcosa di inafferrabile, indeterminato, sfuggente, impossibile da decifrare con certezza (il che comunque non vuol dire che non si debbano prendere posizioni precise, salvo avere l’elasticità di mutare tali posizioni in presenza di nuovi elementi).

Ma ritorniamo al primo cardine che ora poniamo sotto forma di domanda: cosa vuol dire esprimersi attraverso la fotografia? Per rispondere (ma ogni risposta non è certamente assoluta e definitiva) prendo in prestito alcune elaborazioni di Gilles Deleuze (sapendo che probabilmente lo tradirò) che con prudenza vorrei cercare di usare per il mio discorso.

In primo luogo, fare fotografia (ma ciò vale per qualsiasi forma d’arte) significa stare in agguato (in senso animalesco). In sostanza, così come l’animale agisce secondo un istinto innato, il fotografo aspetta, e fa suo, qualcosa non tanto che gli si profila davanti (sarebbe un’attività fin troppo banale) quanto piuttosto che riconosce. Attenzione, questo discorso non ha niente a che vedere con la raffigurazione superficiale della realtà e neanche con l’istante decisivo (che a mio avviso non ha alcun significato ed è stato fin troppo sopravvalutato). L’elemento che il fotografo in agguato riconosce, infatti, è l’idea, intesa come forma pura in grado di innescare il meccansimo della conoscenza del mondo.
La parola idea viene dal greco antico ed ha a che fare con il vedere, e il vedere è connesso al sapere/conoscere ma anche a un altro termine: intuizione. Anche in questo caso devo fare una puntualizzazione. Per sapere/conoscere non intendo la comprensione della realtà attraverso la presunta e sterile visione di oggetti, cose, persone, fatti, quanto piuttosto il vivere l’esperienza dell’incontro con l’idea. Scendo più in profondità. Quando il fotografo “trova” un’idea si relaziona con un concetto, cioè con qualcosa che ha a che fare con il pensiero e non con la sostanza banale delle cose. Esprimersi con la fotografia, quindi, potrebbe voler dire semplicemente: incontrare un’idea/concetto e vivere liberamente questa esperienza soggettiva.

Andiamo al secondo cardine, cioè: l’immagine fotografica è inafferrabile e sfuggente. A mio parere, non può che essere così, visto che il fare fotografia non vuol dire rappresentare cose e fatti quanto piuttosto incontrare idee/concetti. Ebbene, ho in precedenza detto che il fotografo è un “animale in agguato”, ma forse è possibile sostenere come, in molti casi, il fotografo pensi ingenuamente di essere in agguato. Potrebbe invece essere a sua volta vittima di un agguato, cioè sarebbe l’idea a riconoscerlo e a catturarlo.

Ricapitolo: l’idea è un elemento che ha a che fare con il pensiero; l’immagine fotografica potrebbe essere niente altro che il risultato di un processo creativo attivato dal pensiero. Allo stesso tempo, non mi sento di escludere il contrario, e cioè che l’idea, che può preesistere al fotografo per molti motivi, possa prendere possesso del pensiero del fotografo. Dunque, è come se l’immagine fotografica fotografi il suo autore, crei il suo presunto artefice. E questa ipotesi invertirebbe la direzione del processo creativo, che comunque rimarrebbe deleuzianamente un atto di fabbricazione.
Mi spingo, così, provocatoriamente a dire che arte/fotografia e creatività non per forza debbano avere un rapporto unidirezionale, anzi il più delle volte questo rapporto sarebbe bidirezionale. La mia impressione è che le idee/concetti possano essere nelle nostre menti (e in questo concordo in fin dei conti con Pietro D’Agostino) da sempre (gli archetipi?) e che riconducano le nostre specualzioni mentali sempre verso le stesse problematiche.

Dunque, il prossimo argomento che mi piacerebbe sviluppare è il seguente: posto che il fotografo/artista spesso (o sempre) utilizza (e a sua volta può essere utilizzato) le stesse idee, bisognerebbe spostare la riflessione sulle differenti modalità soggettive utilizzate per affrontare la spiazzante esperienza bidirezionale dell’incontro con le idee. E così, probabilmente contraddicendomi (ma lo faccio volontariamente e razionalmente) con quanto scritto all’inizio, bisognerebbe tornare, come fa Giulio Marzaioli nel suo testo, al linguaggio, al come, lasciando da parte il perché ma soprattutto il cosa.
Ebbene, quest’ultima considerazione mi porta a dire che la fotografia (così come l’arte), utilizzando ancora una volta una formula deleuziana, potrebbe far parte di un “delirio paranoico” all’interno del quale non si può fare altro che saltare da un livello a un altro, senza poter uscire da questo circolo vizioso fatto da cerchi concentrici/livelli che ruotano intorno a una matrice tirannica (di cui adesso non mi occupo). Dunque, come trasformare, ammesso che ciò abbia senso,  questo “delirio paranoico” in quello che Deleuze definisce “delirio passionale”, fatto di segmenti che si dispongono uno dietro l’altro nell’ambito una linea retta che va in una direzione, creando  un ritmo, un percorso, una fuga?
Non è che il rapporto tra fotografia e musica sia molto più stretto di quanto si sia portati a immaginare?
E’ questo il quesito conclusivo che lancio, nella speranza che qualcuno lo raccolga.

© CultFrame – Punto di Svista 06/2011

Maurizio G. De Bonis

Maurizio G. De Bonis è critico cinematografico e delle arti visive, curatore, saggista e giornalista. È direttore responsabile di Cultframe – Arti Visive, è stato direttore di CineCriticaWeb e responsabile della comunicazione del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani. Insegna Cinema e immagine documentaria e Arti Visive Comparate presso la Scuola Biennale di Fotografia di Officine Fotografiche Roma. Ha pubblicato libri sulla fotografia contemporanea e sui rapporti tra cinema e fotografia (Postcart), sulla Shoah nelle arti visive (Onyx) e ha co-curato Cinema Israeliano Contemporaneo (Marsilio). Ha fondato il Gruppo di Ricerca Satantango per il quale ha curato il libro "Eufonie", omaggio al regista ungherese Bela Tarr. È Vice Presidente di Punto di Svista - Cultura visuale, progetti, ricerca.

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