Scusate l’intromissione in un campo (intendo dire quello della fotografia – sarà poi un campo bourdieano?) che pure ho incontrato, praticato ed attraversato durante la mia vita, che però non ho mai affrontato così profondamente come viene magistralmente fatto in questo contesto. Se lo faccio è solo perché l’interessantissimo “discorso” Idee, concetti e direzione dell’atto creativo di Maurizio G. De Bonis (un estremo interesse che riscontro in tutti i “discorsi sulla fotografia” fin qui pubblicati) si chiudeva proponendo domande straordinariamente stimolanti; una di esse, in particolare, insinuava la possibilità dell’esistenza tra la fotografia e la musica di un rapporto più stretto di quello che normalmente si crede.
Devo dire che l’ambito musicale lo pratico quotidianamente da tanto tempo, ed ovviamente l’invito ad una riflessione che lo comprendesse era troppo attraente per rinunciarvi. Inizierei, quindi, premettendo (anche se sappiamo che ogni “dire” possiede infinite premesse che non possono mai essere tutte “dette”, e che dunque ogni “dire” è prima di tutto un “non-dire”) proprio da una delle considerazioni di De Bonis, e cioè che la musica così come la fotografia è plurale, molteplice e che probabilmente qualsiasi discorso che ne ricerchi una qualche forma di “essenza” è inevitabilmente destinato a fallire (perché in definitiva, come vedremo in seguito, una “essenza” della fotografia o della musica non esiste e non potrebbe esistere – essa è solo un’illusione offerta dallo “schema chiuso” della parola, che si palesa nella presunta onniformatività del linguaggio).
Circa la pluralità infatti, ora ed in seguito, quando mi riferirò alla musica intenderò unicamente il genere acusmatico, che è appunto l’ambito musicale nel quale opero da più tempo (anche se questo particolare genere musicale non andrà precisamente nella direzione che aveva in mente De Bonis; penso in particolare ai termini ritmo e fuga presenti nella sua domanda – anche se spero, in seguito, di soddisfare il senso metaforico che in quel particolare caso la parola “fuga” contemplava).
La musica acusmatica prende il nome dal termine greco akousma che significa ascoltare senza vedere. Si tratta di una forma d’arte sonora dove non c’è nulla da vedere, non ci sono musicisti che eseguono partiture o che suonano strumenti; essa è totalmente concepita in uno studio di produzione sonora e diffusa tecnologicamente in ambienti totalmente oscurati. Si tratta in realtà di una distanza infinita che separa la fotografia dalla musica; la prima è un’arte esclusivamente visiva e la seconda unicamente uditiva, ma proprio questa distanza, in quanto infinita, le avvicina e le accomuna. Naturalmente tutto ciò apparirebbe contraddittorio se osservato attraverso la lente deformante (o come probabilmente scriverebbe De Bonis, anestetizzante, detergente, sterilizzante) del logos, spazializzato e geometrico, che ci narra di due punti, infinitamente lontani, come di due punti di massima distanza, ma che una “geometria eccentrica” (nel senso di fuori centro), di deleuziana memoria, ci restituirebbe come due punti di massima prossimità.
La fotografia silenzia il suono e la musica obnubila la luce, ma proprio per questo la fotografia si rivela un’arte estremamente assordante e la musica un’arte assolutamente accecante – sì! – è proprio questo che accade se ci si avvicina ad esse in maniera totalmente aperta ed accogliente, premurosi e fragili, senza ottundimenti o impalcature mentali, sedimentazioni o incrostazioni che limitino e devino il nostro “sentire”. Attraverso la luce accecante si intravede tutta la forza e lo spettro del visibile, e attraverso il suono assordante si percepisce tutto il potere e le tonalità dell’udibile. L’immagine rinvia massimamente al suono che non c’è, e il suono (che da sempre rinvia a ciò che lo produce) rimanda all’immagine che non c’è. In parte questo accade anche leggendo questo testo; esso rinvia ad una voce acusmatica che lo ha prodotto – potrebbe essere la mia, se chi legge conosce il timbro della mia voce, o quella dello stesso lettore. Anche l’architettura, come la pittura, la scultura silenziano il suono, ma sono oggetti troppo artefatti per rinviare veramente ad esso. Viceversa, un testo rinvia alla voce in modo assolutamente consistente, ma la differenza con la fotografia e la musica è data dalla sua distanza dal mondo; è vero, esso sembra prodursi in un orizzonte di verità (perché “dire”, se non si dice il vero) ma, come ci ha fatto notare Giorgio Agamben, il sacramento del giuramento sottintende la possibilità della “falsa parola”. Dunque, il linguaggio non sembra consustanziale alla verità così come avviene per la luce o il suono – una foglia è in relazione con la luce in un modo non del tutto diverso da una fotografia di Pietro D’Agostino, e un bosco è in relazione con il suono in un modo non del tutto diverso da una composizione acusmatica di Lionel Marchetti.
Dicevamo, dunque, di questa assenza radicale che fotografia e musica ci rivelano massimamente. L’assenza è il vuoto, la mancanza che più di ogni altra cosa scuote in profondità il nostro essere. Se il nostro essere si percepisce come una parzialità, come un “punto di svista”, come un frammento disperso del mondo, non può che addolorarsi per questo. Ma fortunatamente la fotografia e la musica ci donano il potere dell’inversione, il soffio creativo della contraddizione. Ecco il punto di “fuga” (fuga dal “delirio paranoico”), ed ecco la bidirezionalità della quale scriveva De Bonis; ciò che crediamo di imprimere in un senso o in un verso nel nostro fare e pensare, ci viene, a sua volta, impresso e restituito: diamo e in realtà riceviamo; nascondiamo e in realtà sveliamo; sottraiamo e in realtà aggiungiamo; possediamo e in realtà perdiamo; prediamo e in realtà ci si scopre prede. La fotografia e la musica, grazie alle limitazioni che si auto-impongono (non è una loro qualità, è una strategia di fuga, una possibile breccia aperta verso il “delirio passionale?), mostrano in modo quanto mai chiaro la soglia sfumata entro e oltre la quale i due opposti si toccano, dove il solo parlare di sinestesie appare inappropriato, dove ogni direzione intrapresa si trasforma nella direzione opposta.
Insomma, la mia impressione è che nessun altro tipo di approccio alle cose del “mondo”, come la fotografia e la musica, ci racconti in un modo così efficace di questo limite estremo, dove ciò che appariva residuale si mostra in realtà come l’oggetto principale del nostro orizzonte o del nostro desiderio. Tutto ciò appare chiaramente (o dovrei dire si ritrae oscuramente, enigmaticamente) quando mi capita di contemplare le opere fotografiche di Pietro D’Agostino, dove tutta la materia del mondo sembra depositarsi all’interno (e ancor più all’esterno) di quei “frame” che limitano e perciò espandono la prospettiva del nostro sguardo/udito – che mostrano chiaramente il trascorrere del tempo, che sembrerebbe essere cosa musicale e non di certo fotografica (che il senso comune vuole fermato, ghiacciato, cristallizzato).
Per concludere, se esiste un destino del mondo esso sembra essere eminentemente quello di mostrare o di dimostrare come da qualsiasi prospettiva lo si guardi, sempre che lo si faccia in maniera autentica e dunque originaria, esso si presenti sempre e comunque in tutta la sua interezza (che tutte le cose comprende, contempla); il ché significa, di fatto per noi, scorgerlo sempre in maniera incompleta, parziale, prospettica (perché il tutto non possiamo contenerlo). Un solo prodigio ci è però concesso, e cioè quello di intuirne e sentirne intimamente la deflagrante totalità. A dire il vero… esiste anche un altro finale che Jorge Luis Borges aveva fantasticamente previsto in una delle sue varianti nascoste e cioè, che date queste premesse, si potrebbe facilmente dedurre o sospettare che questo mondo è piuttosto un falso.
© CultFrame – Punto di Svista 06/2011
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