Per un lungo periodo ho considerato “attuale” tentare una sintassi diversa da quella della quotidiana comunicazione, intesa in senso lato. Consideravo che, asciugando all’estremo la frase, azzardando sul rapporto di sovrapposizione tra figura retorica e oggetto, si potesse agire sulla percezione al fine di riscuotere la più necessaria delle categorie critiche, ovvero l’attenzione, oggi tanto aggredita dalla mole di informazioni senza distinzione e dalla frammentazione del tempo cui siamo costretti. Evidentemente partivo da un’assunzione a-critica del rapporto soggetto+verbo+oggetto e quindi presumevo che, agevolando un diverso rapporto di percezione nel lettore, le categorie dettate dai comuni mezzi di comunicazione potessero essere ri-codificate.
Riflettendo in merito alle dinamiche di gerarchia operanti all’interno della frase, la priorità del soggetto è entrata in crisi e progressivamente ha fatto incursione in primo piano l’elemento oggettivo sotto forma di esperienza altrui e/o esperienza condivisa. Laddove, in un primo tempo, il lavoro sulla scrittura presupponeva l’imposizione di un proprio linguaggio all’ascolto altrui, ora il lavoro si sposta su un terreno comune su cui giocare la propria responsabilità di autore. È, quindi, a partire dallo stesso versante (dalla stessa comune percezione) che si tenta un distanziamento consapevole, come in un altorilievo. Ancora opera di sottrazione, quindi, ma senza la pretesa di ri-ordinare il linguaggio (nel tentativo, anzi, di scardinare i rapporti di potere che nel discorso orientano la lettura).
Tuttavia mancava e manca qualcosa. Non è infatti possibile condurre linee di sguardo con la parola scritta; non è insomma possibile concepire un grado 0 nel dialogo con il lettore (osservatore) se non attraverso la formulazione di un codice culturale, o quantomeno linguistico, di comune riferimento. Se da una parte l’intervento sulla forma e sulla sintassi offre l’opportunità di dialogare con l’altrui percezione in chiave argomentativa e di elaborazione del pensiero, un’esigenza etico-estetica premeva sempre più nel cercare una complementarietà, una soluzione di immediatezza che seguisse parallelamente la scrittura nel segno di una recuperata (recuperabile) attenzione.
Avendo collaborato e dialogato per anni con la fotografia altrui il transfert era quasi naturale, nel rispetto di due presupposti metodologici: lavorare sulla fotografia per raggiungere un’immagine; formulare un discorso per immagini che dialogasse con la scrittura. Di qui la negazione del principio originario dell’arte fotografica: fermare (catturare) un’immagine della/dalla realtà. Insomma, non già imprimere (grafia) attraverso la luce (foto) bensì con la luce modificare l’immagine impressa.
Si ribalta l’intuizione di Pietro D’Agostino (in Depositi culturali, luce e fotografia), o forse ad essa ci si sovrappone nel momento in cui, partendo da punti opposti, l’incontro può avvenire su una medesima retta che traccia un percorso verso l’indeterminatezza dell’immagine. Più precisamente, ciò che mi interessa del lavoro su e per immagini è la possibilità di occupare il campo visivo (= percezione) con il dettaglio (= attenzione) e, allo stesso tempo, indicare la potenziale forza creatrice del dettaglio (= attenzione) da cui possono fuggire linee prospettiche impreviste. Sovra-esponendo e mettendo fuori fuoco ciò che sta attorno al dettaglio si configura un “ambiente” polisemico proliferato dal dettaglio stesso. Violando il rigore della fotografia e tentando lo stesso rigore nell’opera di violazione, il risultato sperato consiste nella fuga dello sguardo in levare, a muovere dal particolare e/o viceversa, la concentrazione (condensazione) dello sguardo nel particolare, così da attivare – in un continuo rapporto di messa a fuoco – la propria capacità di percezione (= attenzione), appunto. Essendo soggiogati da un pieno di immagini che illudono della possibilità di possedere uno sguardo totale e sul totale, il fuoco va sul dettaglio. Essendo costantemente persuasi che ciascuna immagine immessa nel nostro sguardo corrisponda al vero, dal dettaglio si va su campi sfuocati dove, nell’inespresso, si possono celare più attendibili verità.
© CultFrame – Punto di Svista 06/2011