Green, White, Red: o dell’anticelebrazione ⋅ La collezione Maramotti a Reggio Emilia

SCRITTO DA
Silvia Bottani
Pauline Bastard. Beautiful Landscapes, 2007 – 2010. 30 x 20 cm. © and photo credit: Pauline Bastard

Le celebrazioni per i centocinquanta anni dell’Unità d’Italia sono stati l’occasione per orchestrare una serie di eventi, dal più pretestuoso al più onesto, passando attraverso una serie infinita di variabili. Nell’ubriacatura che caratterizza la programmazione culturale di quest’anno, procedendo a tentoni, ci si può però imbattere quasi fortuitamente in esposizioni come “Green White Red”, ospitata dalla Collezione Maramotti di Reggio Emilia.
Collocata nelle sale inferiori del complesso dove risiede la collezione permanente di Achille Maramotti – industriale che ha dato i natali alla fortunata vicenda imprenditoriale del marchio Max Mara e appassionato collezionista d’arte – “Green White Red” è un percorso à rebours nel concetto d’italianità, una matrioska che si apre su tre assunti lapalissiani come i colori della bandiera per approdare a lidi inaspettati, e sembra proprio il caso di utilizzare la metafora dei lidi perché il percorso assomiglia più a una immersione che a una passeggiata su sentieri battuti.

Già un regista “morale” come Krzysztof Kieslowski ebbe la felice intuizione di mettere in scena una riflessione scaturita dai colori blu, bianco e rosso della bandiera francese, per realizzare quel capolavoro che è la sua trilogia. Anche in questo caso, il tricolore italiano è uno strumento per costruire un percorso espositivo che va decisamente oltre il mero intento celebrativo, selezionando autori assolutamente eterogenei, scelti tra il vasto fondo della collezione del Frac Aquintaine, regione che ha avviato un gemellaggio con l’Emilia Romagna. Sembra curioso ma tutt’altro che causale che la curatrice Claire Jacquet sia francese, quasi come se, attualmente, per parlare di un’identità, di un carattere, di un quid che segna un popolo, sia necessario utilizzare una prospettiva di estraneità.

Josef Sudek

Josef Sudek. From the cycle “The window of my atelier”, 1940. 39,8 x 2,9 cm. © Josef Sudek / Anna Farova

Spazziamo via ogni dubbio chiarendo subito che la mostra non accompagna lo spettatore coccolandolo con immagini agiografiche, presentando una serie di cartoline che raccontano una sorta di Grand Tour alla maniera contemporanea, ossia riveduto e corretto da una furba dose di critica sociale, nostalgia di un passato naif e vedute pittoresche. Articolandosi a partire dagli anni ’30, l’esposizione comprende una serie di artisti di prima grandezza della fotografia contemporanea, accostati in maniera acuta e con sconfinamenti poetici. Divisa in tre sezioni, nella prima, ossia “Green. A part of nature”, viene messa in scena una riflessione sul paesaggio, tema che si fa largo nella figurazione pittorica europea a partire dal XVII secolo. Ci si sposta così dalle visioni oniriche di Josef Sudek all’affermazione del paesaggio come prodotto culturale di Pauline Bastard, dall’approccio elegiaco di Hamish Fulton alle “memorie” incenerite di Dove Allouche, rivisitando il concetto di landscape, certamente influenzati anche da una più recente, riscoperta sensibilità ambientale. Da un’artista come Sudek, che funge da ponte tra l’esperienza pittorica del passato e la fotografia come linguaggio autonomo, al gesto performativo della landart di Richard Long che interviene in maniera attiva sulla realtà del paesaggio, si apre un ampio spazio in grado di comprendere declinazioni difformi del rapporto tra soggetto artistico e natura.

La sezione “White”, cui corrisponde il concetto riassunto nel sottotitolo “Times of innocence or silence”, raccoglie i lavori, tra gli altri, di Karen Knorr, Luigi Ghirri, Diane Arbus e Deborah Turbeville. Sono queste le opere più enigmatiche e, in qualche misura, più aperte alla lettura, che si collocano, come enuncia la curatrice, in quello spazio che “precede o segue il caos”. Appaiono  un’architettura di Walker Evans, un’immagine decisamente laconica, e un palazzo di Thomas Ruff, che rimbalza sulle maschere perturbanti dei bambini di Arbus, o i lussuosi interni abbandonati di Deborah Turbeville, vestigia di un’aristocrazia evocata e di cui rimane possibile memoria nelle cose, congelate da un lenzuolo bianco che le ricopre come un sudario. Il volto di Kim Novak fotografato da Duane Michals risponde per misteriose simmetrie alla natura morta di Sudek, la coppia di vecchi coniugi di Weston racconta di una solitudine che riaffiora nella paternità di Larry Clark, gentleman della borghesia inglese di Knorr e gli spazi aperti, stratti, immoti di Bernard Descamps rimandano ai volumi di Ralph Gibson.

Andres Serrano

Andres Serrano. Milk Cross, 1987. 101 x 152 cm. © Andres Serrano. photo credit: Thierry-Daniel Vidal

“Between Passion and Conflicts” è invece il grande tema su cui si incardina la sezione “Red”, dove trovano spazio tra gli altri Cindy Sherman, un denso lavoro di Gilbert & George, Andres Serrano, Manuel Alvarez Bravo. In questo caso, la sezione si sarebbe prestata a facili cliché, o alla scelta di opere emotivamente sfacciate. La decisione della curatrice è invece controcorrente e privilegia opere dove i conflitti implodono, le passioni sono sotterranee e l’impressione complessiva è quella di un flusso sanguigno venoso, scuro e profondo, che scorre sotto molti strati di quella umanità rappresentata nelle foto.

La proposta curatoriale della mostra predilige un itinerario non cronologico, senza didascalie che facciano da stampella a chi guarda: lo spettatore è posto nella condizione di abbandonarsi a una visione non lineare ma estremamente stimolante, che privilegia l’accostamento delle opere evocando legami sottili più che dati storico-scientifici. Particolarmente incisivi risultano quindi alcuni passaggi, come l’accostamento dei ritratti dei “Les enfants de Berlin” di Christian Boltanski con la “Milk Cross” di Serrano, punto di fuga e summa della sala, racchiusa dai macro dettagli del viso di “Amour Aveugle” di Genevieve Cadieux, dal “Soldat” di August Sander e dall’assassinio immortalato senza pudore da Alvarez Bravo.

Ciò che rimane allo spettatore, a conclusione di un percorso compatto e molto denso, è una percezione musicale che si compenetra con la fruizione visiva, qualcosa che si avvicina molto all’esperienza dei cosiddetti “armonici”: come un suono che, producendosi, contiene in sé necessariamente altri suoni, così le immagini che costellano il percorso vibrano tra loro e si richiamano infine vicendevolmente, travalicando sezioni, nazionalità, temi e percorsi. Dimostrando con evidenza a che grado di stratificazione possa e debba giungere il progetto di una mostra fotografica e come il carattere nazionale possa essere il punto di partenza ideale per una meditazione di matrice universale.

© CultFrame 06/2011

INFORMAZIONI
Green White Red. A Perfume of Italy in the Collection of Frac Aquitaine / A cura di Claire Jacquet
Dal 7 maggio al 31 luglio 2011

Opere di: D. Allouche, P. Bastard, A. Claass, B. Faucon, H. Fulton, P.A. Gette, L. Ghirri, J. Groover, R. Long, J.L. Mylayne, J. Pfahl, J. Sudek, H. Trülzsch, B. Webb, H. Zobernig, M. Álvarez Bravo, D. Arbus, Bauhaus Dessau, M. Bonetti, H. Callahan, H. Cartier-Bresson, L. Clark, Clegg & Guttmann, B. Descamps, W. Evans, P. Fischli & D. Weiss, R. Frank, L. Friedlander, R. Gibson, P. Gioli, Izis, A. Kertész, W. Klein, K. Knorr, D. Michals, T. Ruff, A. Sander, D. Seidner, O. Thormann, D. Turbeville, E. Weston, C. Boltanski, G. Cadieux, Gilbert & George, V. Jouve, J. Koons, U. Lüthi, Made in Éric, A. Serrano, C. Sherman.

Collezione Maramotti / Via Fratelli Cervi 66, Reggio Emilia / telefono: 0522.382484 / fax. 0522.934479 / info@collezionemaramotti.org
Orario: La Collezione è aperta al pubblico su prenotazione / giovedì e venerdì 14.30 – 18.30 / sabato e domenica 10.30 – 18.30
Catalogo: Silvana Editoriale

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Collezione Maramotti, Reggio Emilia

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