The Hunter, presentato alla 60ma Berlinale ma anche all’ultima edizione del Torino Film Festival, è un film iraniano. Bisogna specificare subito che è un film atipico per quella cinematografia. Ma in fondo chi conosce così bene una cinematografia per dire quali sono le pellicole che la rappresentano? Rafi Pitts, qui alla sua quarta opera, lavora come un regista occidentale e deve molto ad un certo cinema americano degli anni ’70. I problemi, in ogni caso, sono sempre quelli che affliggono suo popolo.
Abbiamo incontrato Rafi Pitts e l’abbiamo intervistato.
Non teme di essere talmente “universale” e “libero” dalle convenzioni che gli iraniani possano non riconoscersi nei suoi film?
Mi piace pensare di venire da un paese complesso, non solo in bianco e nero, con il quale e nel quale è difficile relazionarsi. Per questo non cerco di giudicare chi è andato in guerra; cerco di capirlo. È facile odiare, l’una parte o l’altra, ma poi, quale che sia la propria idea, la gente dovrà incontrarsi e parlare, e dovrà cambiare. Perché ogni vita persa non sia persa per davvero.
Alla storia che racconta si mescolano eventi successi di recente, li ha inseriti lei volutamente o è stato un caso? Insomma ha voluto denunciare la situazione iraniana?
È stata una esperienza strana, perché tutto è venuto dopo gli eventi in Iran. Ciò di cui parlo lo sanno più o meno tutti anche se poi il film nasce da una storia che si muove tra realtà e finzione e che appartiene al villaggio dal quale viene la mia famiglia (il tutto risale a prima della rivoluzione). Quando scrivo una sceneggiatura, soprattutto sul mio paese, voglio poterne fare un film che venga visto. E come sapete questo è estremamente difficile in Iran. Lo script è una sorta di linea guida ispirata a ciò che mi circonda. È normale che ci siano influenze, quindi anche se il film è stato girato prima di certi momenti storici, e le coincidenze fanno parte del nostro lavoro, la realtà è un film che sta accadendo davvero. Ho realizzato, mentre lavoravamo, che se la situazione fosse degenerata poteva esserci il rischio che il film si interrompesse, ma quando fai un lungometraggio non c’è solo la politica, ci sono molti livelli, soprattutto se cerchi di dargli più profondità possibile. Tu scegli il punto di vista dal quale accedere, col quale leggere o sentire il film (e questo dipende da te), dalla tua emotività o dalle tue tendenze.
Ma quali sono i temi che affronta la sua pellicola?
Il mio protagonista è un uomo che perde tutto, così lo presento al pubblico che lo leggerà in base alle sue idee personali… Lui uccide a caso, ma io non sono d’accordo sull’uccidere come non credo nemmeno nel giudicare le persone. Quando sono dietro alla macchina da presa cerco solo di essere me stesso e io vengo da un paese nel quale il 70% della popolazione è sotto i 30 anni e dove un altro 30% vive di rivoluzione. Una guerra nella quale sono morte milioni di persone, ma nella quale non è coinvolta la maggioranza del paese. Ciò che posso fare io è porre domande, ad ambo le parti. Se credessi nelle regole e nelle convenzioni non farei il regista.
La quotidianità che ci racconta è particolarmente dura. Quanto è vicina alla realtà?
È sicuramente dura perché provengo da un paese che è veramente duro. In ogni caso il mestiere del cineasta, almeno per me, è quello di rispecchiare come uno specchio, appunto, quello che vedo intorno a se. Nel mio caso si tratta di raccontare quello che succede in Iran, un paese particolarmente difficile.
In The Hunter, ci sono moltissimi silenzi anche anche se ci sarebbero molte cose da dire. Come mai questa scelta stilistica un po’ inusitata oggi?
Se per silenzi intendete la mancanza delle parole… si è vero. Ma in The Hunter non ci sono mai veramente silenzi perché c’è il suono. Attraverso il suono riesco a esprimere tutto quello che avrebbero potuto dire i miei personaggi. E non uso le parole perché non riescono a comunicare tra di loro.
Questa idea dell’incomunicabilità in un contesto diverso ci fa pensare ad Antonioni…. È uno dei miei registi preferiti. Ha firmato solo capolavori.
Quali altri registi le piacciono?
In Italia Antonioni è il mio preferito, Professione Reporter è il suo film che amo di più. Ma poi amo anche Pasolini. John Cassavetes mi piace moltissimo perché riesce ad andare oltre la nostra realtà diventando delle volte persino surreale. E poi nessuno dirige gli attori come lui.
© CultFrame 06/2011
IMMAGINE
Rafi Pitts nel film The Hunter – Il cacciatore
CREDITI
Titolo: The Hunter – Il cacciatore / Titolo originale: The Hunter / Sceneggiatura: Rafi Pitts / Fotografia: Mohammad Davudi / Montaggio: hassan Hassandoost / Interpreti: Rafi Pitts, Mitra Hajjar, Naser Madahi, Malek Jahan Khazai, Ali Nicksaulat, Ali Mazinani, Amir Ayoubi, Ossta Shah Tir, Hossein Nickbakht, Gholamreza Rajabzadeh / Produzione: Aftab Negaran Productions, Filmförderungsanstalt, ZDF/Arte / Distirbuzione: Fandango / Paese: Iran, Germania, 2010 / Durata: 92 minuti