Ogni anno alla conclusione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, i quotidiani e gli organi di informazione pubblicano consuntivi, editoriali, commenti sull’edizione appena passata. Si scrive del film che ha vinto il Leone d’Oro, sugli altri riconoscimenti, si analizza il palmares cercando di capire se la giuria abbia commesso ingiustizie, se abbia lasciato da parte opere meritevoli oppure se abbia emesso un verdetto in linea con i valori dei lungometraggi in concorso.
Tutto si ripete inesorabilmente sempre uguale, senza particolari sussulti. Non vi tedierò, dunque, con prese di posizione sul Faust di Sokurov (per me, in ogni caso, un capolavoro effettivamente degno del Leone d’Oro), né mi esprimerò in merito al silenzio assoluto cha ha riguardato altre due prove significative come quelle di Roman Polanski (Carnage) e David Cronenberg (A Dangerous Method). “Vincere” o “perdere” a festival come Venezia, Cannes e Berlino fa parte del gioco e chi decide di partecipare a questo tipo di “competizione artistica? conosce perfettamente le regole.
Allora ecco una riflessione sulla Mostra di Venezia, solo per comunicarvi un mio pensiero riguardante lo spazio che avrebbe dovuto ospitare il nuovo palazzo del cinema. L’area si presentava come una linda distesa plastificata sotto cui si nascondeva, collocato sotto terra, un bel quantitativo di amianto. Probabilmente, tutto lo spazio era stato perfettamente messo in sicurezza (anzi ne siamo sicuri) ma sinceramente non mi sono sentito a mio agio sapendo che sotto quell’enorme cratere sigillato, posto proprio davanti al Casinò e al casellario degli accreditati stampa, era sotterrato amianto potenzialmente nocivo per la salute degli esseri umani.
Crateri fisici coperti da plastica bianca, zone allo stesso tempo nascoste e visibili a tutti. Sembra la perfetta metafora della questione di cui vorrei parlare da adesso in poi.
Voglio iniziare dalle parole pronunciate da Marco Bellocchio in occasione della consegna del Leone alla carriera. Secondo quanto riportato da alcuni organi di informazione il regista de I Pugni in tasca avrebbe detto in merito al cinema italiano di oggi: “Tutti su buttano sulla commedia – poveramente, miseramente – perché ha avuto successo; invece bisognerebbe cercare strade nuove”.
Dichiarazione durissima che avrebbe meritato da parte della stampa e della critica cinematografica (ma anche da parte degli autori) l’avvio di un dibattito, prese di posizione; insomma un confronto culturale anche aspro. Invece, poco o niente. Bellocchio, uno degli ultimi maestri italiani in attività, spara una cannonata sul cinema di casa nostra (a mio modesto giudizio a ragione) e la cosa passa quasi nell’indifferenza generalizzata.
Come è possibile ciò? Perchè nessuno (e se qualcuno l’ha fatto magari ce lo faccia sapere poiché non abbiamo potuto leggere tutti i giornali del paese) tra i registi e i critici italiani ha sentito l’esigenza di avviare una discussione sul problema (giustamente) sollevato da Marco Bellocchio?
Il tema per chi si occupa di cinema in Italia è in realtà enorme; andrebbe dunque presa al volo l’occasione che Marco Bellocchio ci ha servito su un piatto d’argento. Come sempre, però, si è preferito non agitare le acque perché il cinema italiano, di fatto, è un territorio quasi intoccabile e perché il dialogo (quello vero) tra autori, produttori e giornalisti è inesistente. D’altra parte, la voce della critica sui quotidiani nazionali e sui massmedia (a parte alcune eccezioni) è praticamente spenta. Articoli descrittivi (spesso di non critici), appunti di colore e gossip hanno sostituito le recensioni, e soprattutto gli approfondimenti culturali. E allora i pochi spazi disponibili bisogna gestirli senza fare troppo rumore e senza sollevare polveroni (per carità).
Tale situazione mi obbliga ad affrontare lo spinoso caso della proiezione stampa del film di Cristina Comencini: Quando la notte. Come forse saprete, in sala Darsena alla proiezione destinata agli accreditati stampa (ma penso siano entrati anche i cosiddetti “cinema”, cioè accrediti culturali non appartenenti all’area giornalistica), il film della Comencini è stato accompagnato da risate e da fischi. Cristina Comencini e il suo produttore non l’hanno presa bene. Anzi, l’hanno presa malissimo. Certamente, non è piacevole per un autore sopportare fischi e risate. Ci ha sorpreso qualcos’altro, cioè il fatto che invece di discutere sul film (e sulle ragioni che hanno spinto la stampa a rumoreggiare) molti giornalisti abbiano cercato in maniera moralistica di stigmatizzare il comportamento di altri colleghi (forse un po’ troppo esuberanti) che avevavo osato contestare un lungometraggio, come se tale comportamento fosse qualcosa di vergognoso, un atto di lesa maestà.
Ebbene, cerchiamo di chiarire alcuni punti. Chi scrive non ha sentito alla Sala Darsena insulti verso la regista, come qualcuno ha affermato. Solo risate e fischi. Non è la prima volta (e non sarà l’ultima) che capita una cosa del genere. E’ successo ad Avati e a Placido (e in passato anche a lungometraggi non italiani). Se si decide di partecipare alla Mostra di Venezia, bisogna essere consapevoli che situazioni del genere si possono verificare. Come già detto, ogni gioco ha le sue regole.
Chi si è indignato moralisticamente (lo ripeto) per la contestazione all’opera della Comencini evidentemente non ricorda che il dissenso nel mondo dell’opera lirica viene da sempre manifestato apertamente anche durante le grandi prime, nei teatri più importanti del mondo. Qualcuno potrà dire che nella lirica è il pubblico a fischiare, non la stampa. E’ vero, ma non si può neanche evitare di evidenziare come i festival cinematografici generino da sempre fenomeni di forte partecipazione di derivazione “cinefila”. E’ impossibile considerare la stampa cinematografica come qualcosa di graniticamente ingessato e paludato (in sala Darsena al Lido ci sono migliaia di accreditati di tutto il mondo). Dunque, può anche succedere che ci siano fischi e manifestazioni di palese disapprovazione.
In fin dei conti, si tratta di comportamenti che scaturiscono da un potente senso di attaccamento alla settima arte (esattamente ciò che succede nella lirica), di passione (magari mal incanalata, ma autentica), che altre forme d’arte meno popolari hanno ormai dimenticato.
Episodi come quelli capitati alla Comencini non possono forse essere considerati formidabili veicoli di amplificazione mediatica? Se Quando la notte fosse passato nell’indifferenza generale non sarebbe stato più deprimente?
Ed ancora: i fischi sono stati indirizzati al lavoro di un’autrice il cui cognome è molto conosciuto. Mi domando: ci sarebbero state tutte queste indignazioni pubbliche se i fischi fossero stati diretti, ad esempio, al film dell’esordiente Pacinotti? Come mai alcuni organi di informazione hanno preferito difendere a spada tratta la regista (riguardo un episodio ininfluente di cui tutti si dimenticheranno presto) invece di dare spazio a un’analisi approfondita della pellicola in questione?
Ebbene, temo sinceramente che ci sia in Italia una malattia culturale tragica: l’assenza di spirito critico. Questa assenza è accompagnata dalla “paura di esprimere idee e opinioni controcorrente” e dal desiderio di non “turbare? troppo un certo settore della produzione culturale italiana. In sostanza, è sempre meglio mantenere buoni rapporti piuttosto che dire con sicerità ciò che si pensa realmente.
Nell’ambiente giornalistico/cinematografico (che conta) questa realtà è visibile con chiarezza. Basta vedere scritte sui nostri giornali frasi come “…riscossa del cinema italiano” (solo perché una giuria ha deciso di dare un premio al film di Crialese) per capire che c’è qualcosa che non quadra. Chi può essere credibile nel dichiarare che esiste una riscossa del cinema italiano a causa di un premio che non vuol dire poi granché?
Non è che nel nostro paese ha ormai attecchito l’idea che è meglio non dare fastidio a quelli che di fatto sono stati trasformati, magari senza che loro se ne siano resi conto, in intoccabili? Purtroppo, questo triste atteggiamento è in gran voga sui nostri organi di informazione. Ecco un altro esempio (tra i molti che potrebbero essere fatti): chi ardirebbe, in Italia, affermare che Roberto Benigni è un cineasta di livello modesto, come effettivamente è?
Vi lascio riflettere su quest’ultima domanda, che forse meriterebbe un altro lungo articolo. Mettere troppa carne al fuoco, infatti, e come non metterne per niente.
© CultFrame – Punto di Svista 09/2011