La lettura dei quotidiani del 2 ottobre 2011 è stata, a livello fotografico, estremamente interessante. Tra i diversi articoli che ho potuto leggere, due hanno catturato la mia attenzione. Il primo è stato pubblicato nell’inserto culturale del Sole 24 ore (pag. 39). Si intitolava Nachtwey: “Scatto solo foto forti” ed era firmato da Laura Leonelli. Il secondo era collocato in un’ampia pagina de Il Fatto Quotidiano (pag.14) dedicata al Festival di Internazionale (Ferrara) ed era intitolato Foto Brutte? Meglio i disegni. Quest’ultimo pezzo riportava un decalogo sulla fotografia stilato da Christian Caujolle, già photoeditor di Libération e fondatore dell’Agenzia Vu.
Rispetto all’articolo incentrato su Nachtwey mi ha colpito la seguente dichiarazione del fotografo americano:
“E queste fotografie da Antietam a Da nang, all’11 settembre ci ricordano che la loro forza, ieri come oggi, viene dalla realtà. Senza queste immagini sarebbe più facile dimenticare i conflitti, le stragi, le epidemie che devastano gran parte del mondo. Una volta che hai visto, sai, e non puoi tacere”.
Riguardo Caujolle, ecco due punti del decalogo che vorrei sottoporvi:
“6) La morte di una foto è quando viene usata semplicemente per illustrare il contenuto. O, peggio ancora, per fornire una prova del contenuto dell’articolo. Niente di più sbagliato, la fotografia non prova nulla, non è la realtà. E questo è ancora più vero da quando c’è il digitale. 7) Non fidatevi delle fotografie e del fotografo. Una foto non è la realtà.”
Ebbene, chiunque si relazioni con queste dichiarazioni può comprendere di trovarsi di fronte a una sorta di corto circuito, o meglio di abisso che separa nettamente chi fa concretamente la fotografia (Nachtwey) e chi invece ci ha lavorato (sulla fotografia) nelle redazioni e l’ha studiata a livello teorico (Caujolle). E’ come se questi due mondi non fossero in grado di parlarsi, anzi è come se questi due mondi parlassero di cose e lingue diverse. E invece si tratta della medesima disciplina.
Per evitare ogni ipocrisia mi sembra doveroso affermare che personalmente la penso come Caujolle. Si potrebbero portare innumerevoli esempi per dimostrare che fotografia e realtà non sono per nulla parenti stretti. E poi non posso evitare di sottolineare la topica di Nachtwey quando afferma: “Una volta che hai visto, sai“. Tale affermazione può essere smontata con grande facilità e appare anche un po’ ingenua, visto che il fotografo americano è un professionista navigato. Dovrebbe, infatti, sapere perfettamente che stare in un luogo, vedere e scattare una fotografia non implica automaticamente il sapere qualcosa rispetto a ciò che si sta guardando, a meno che si proceda a un’ingiustificata mitizzazione (spesso utile per motivi commerciali) del lavoro (comunque molto importante) del fotorepoter.
Certo, non sono state scattate da un fotogiornalista ma cosa possiamo dire delle immagini usate dalle autorità americane per documentare l’uccisione di Bin Laden? Forse è possibile dire che avendo visto un letto sfatto insanguinato, o lo “stato maggiore” della politica statunitense riunito in una stanza noi sappiamo cosa sia realmente successo in Pakistan?
Il discorso non cambierebbe se ci rapportassimo a immagini realizzate da un testimone diretto di un fatto. Quest’ultimo non potrà mai dire di “sapere qualcosa” solo perché ha visto direttamente “questo qualcosa”. Sarebbero troppi gli elementi che un testimone dovrebbe conoscere per poter essere sicuro di sapere. E ciò può accadere solo in casi molto rari (ed evitiamo qui di affrontare le complesse questioni legate ai meccanismi fisico/neurologici del senso della vista).
Ma non è questo il punto su cui volevo soffermarmi. Mi interessa di più, in questo caso, comprendere le ragioni di questa separazione, dell’impossibilità del dialogo (visto ciò che affermano) tra un fotografo come Nachtwey e un photoeditor/teorico come Caujolle. Possibile che ci siano visioni così distanti riguardo il rapporto tra fotografia e realtà? Possibile che non si possano fermare dei punti che siano patrimonio comune di chiunque si occupi di fotografia? Qualcuno potrà dire che probabilmente è meglio così. Un’ampia pluralità di posizioni contrastanti è meglio di un’unica granitica concezione della fotografia. Su questo sono d’accordo e penso, infatti, che il problema risieda, più che nelle differenze di impostazione, nei veri motivi che spingono tutti i protagonisti del mondo della fotografia (a vario titolo) a ragionare in maniera funzionale alla loro immagine pubblica e professionale.
Una volta che si interpreta il ruolo del fotorepoter coraggioso che denuncia (magari a causa di pregiudizio ideologico o modaiolo) le malefatte degli altri è difficile porsi nelle condizioni di elaborare un ragionamento sulla sostanza profonda e problematica della disciplina fotografica.
Anche i teorici fanno la loro parte (e dicendo ciò compio un supremo sforzo di autocritica) prendendo spesso posizioni che appaiono funzionali solo a esprimere una concezione teorico/filosofica distaccata che non fa i conti con la durezza e gli aspetti concreti del fare fotografia in situazioni come quelle elencate da Nacthwey (guerre, stragi, epidemie).
Di fronte a questo abisso, che a mio avviso non è ravvisabile in altre discipline artistiche come il cinema o la letteratura (dove autori e critici pur con posizioni diverse e scontrandosi duramente tendono a usare la stessa lingua), forse bisogna prendere atto che è l’ambiguità strutturale della fotografia a farla da padrona e a determinare una separazione potrà essere annullata solo se si riusciranno a trovare dei cardini condivisi tra chi fa fotografia e chi la studia.
© CultFrame – Punto di Svista 10/2011
IMMAGINE
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