This Must Be the Place. Un film di Paolo Sorrentino

Cheyenne ha lo sguardo stralunato del sognatore e la voce sottile di un bambino che, con un rossetto in mano, disegna fuori dai contorni le labbra piegate in una smorfia che si fa sorriso o ghigno. Il suo incedere è lento e faticoso, aggrappato al peso costante di una valigia che è fardello di vita trascorsa e zavorra del quotidiano. Attraversa così, Cheyenne, ogni inquadratura e ci spinge a seguirlo, dalla Dublino adottiva all’America paterna, in un viaggio che divide in due se stesso e il film. Sorrentino, infatti, dipana la sua storia attraverso un percorso che separa il ritratto di un uomo dal cammino verso un sé che aveva dimenticato o, forse, amaramente occultato.
L’Irlanda è la terra dell’oggi, il luogo dove riesce a tenere insieme gli affetti più veri, al riparo in una casa-reggia troppo piccola per stiparvi il passato e troppo grande per contenere i giorni di domani. Sorrentino dimostra, ancora una volta, di saper incastonare alla perferzione i personaggi negli ambienti che, al pari di coloro che li abitano, rilasciano malinconia o disperazione, senso di appartenenza o parvenza di serenità. Negli interni lussuosi Cheyenne è un’ombra nera che si staglia sull’elegante candore dei muri dove la luce filtra e si scompone nelle vetrate liberty per illuminare, spietatamente, la noia depressiva di una vita che sente vuota come la piscina dove gioca con la moglie.

Come già accadde ne Il divo, Sorrentino traccia magistralmente la parabola di un matrimonio attraverso poche ed efficaci battute, nelle quali esprime tutta la complicità, l’intesa profonda o la distanza di una coppia, rendendo chiara, in una manciata di folgoranti inquadrature, la sostanza di un rapporto. La parte più bella ed emotivamente coinvolgente del film si trova nell’incrocio di sguardi con la moglie Jane ma anche negli incontri con la piccola Mary – amica e figlia, fan e sorella – nella quale il protagonista riflette il suo sguardo triste a cercare conforto in quello limpido di una giovinezza, sì dolorosa, ma ancora non corrotta.
Nel cuore di Cheyenne albergano dolore e turbamento ma ancora speranze dure a morire e possibilità di cambiamento che vanno oltre i confini di un paese o di un passato che si è tentato di dimenticare. Lungo le strade di un’America che sembra scoprire per la prima volta, la malinconica rockstar esplora, fino in fondo, non solo la paterna ossessione ma, soprattutto, la propria. La musica, il successo, l’abbandono e la fuga scandiscono, come il susseguirsi degli atti, la messa in scena di una personale tragedia delle origini. Sean Penn, di sublime bravura, non interpreta Cheyenne ma “è” Cheyenne, personaggio tragico che cela le lacrime sotto il bistro e arranca nel suo dolore sui moderni coturni di pelle nera mentre, on the road, incontra i personaggi che lo condurranno alla fine del suo viaggio.

Con grande sensibilità, e non poco coraggio, il regista partenopeo esplora in This Must Be the Place gli intimi recessi dell’animo umano,  con un’opera ambiziosa quanto sinceramente ispirata. E’ chiara, infatti, l’autenticità del fervore emotivo che ha portato Sorrentino a (de)scrivere un personaggio come questo ma forse è proprio cotanto, sincero, impulso a segnare il limite del film. Come spinto da un eccesso di passione egli imprime alla pellicola, come accade al movimento fisico del protagonista, un andamento ondivago, talvolta incerto e, al pari di Cheyenne, capace di slanci sublimi e ansiose stonature.

Il sound avvolgente di David Byrne scandisce il ritmo della storia, la bella fotografia di Luca Bigazzi (al quarto film con Sorrentino) illumina gli spazi e amplifica la profondità di ogni inquadratura come a respiravi dentro ma la regia pare fatichi a trovare un equilibrio. Di fronte al talento puro di Sean Penn, in grado di rendere reale e credibile anche un protagonista così platealmente sopra le righe, sembra che il regista sacrifichi tutto il resto o si adoperi per orchestrarlo intorno alla figura di Cheyenne che un attore come Penn sa rendere magnifica. Film e personaggio si sovrappongono e, pur non combaciando, finiscono per risultare indivisibili. La giustezza sta nel loro combinarsi che non è perfezione ma intesa fatta di emozione e, come tale, forse inesprimibile o, per dirla con Göethe, qui “l’arte è lunga, il giudizio difficile, l’occasione buona ma passeggera”.

© CultFrame 10/2011

 

TRAMA
Cheyenne, cinquantenne, ex rockstar vive  una vita agiata a Dublino, insieme alla moglie Jane. Tanto annoiato da sentirsi prossimo alla depressione l’artista trascorre le sue giornate in compagnia della consorte o di una giovane amica che, come lui, ama il look eccentrico e con la quale condivide sia la passione per la musica che una certa inclinazione malinconica. La morte del padre riporta a New York Cheyenne dopo trent’anni. Attraverso i diari del suo genitore scopre che, da una vita, egli era ossessionato dalla ricerca del criminale nazista che lo aveva torturato e che ora vive negli Usa. Cheyenne decide così di mettersi sulle tracce dell’uomo e inizia un viaggio, lungo le strade d’America, alla ricerca di un passato che segnerà il proprio presente.


CREDITI

Titolo: This Must Be the Place / Titolo originale: Id. /Regia: Paolo Sorrentino / Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello /Interpreti: Sean Penn, Frances McDormand, Eve Hewson, Judd Hirsch, Harry Dean Stanton, David Byrne / Fotografia: Luca Bigazzi / Montaggio: Cristiano Travaglioli / Musica: David Byrne / Produzione: Indigo Film, Lucky Red, Medusa Film / Distribuzione: Medusa / Paese: Italia, Francia, Irlanda 2011 / Durata:120 minuti

LINK
CULTFRAME. Il divo. Un film di Paolo Sorrentino
CULTFRAME. L’amico di famiglia. Un film di Paolo Sorrentino
PUNTO DI SVISTA. This Must Be the Place. Incontro con Paolo Sorrentino
Filmografia di Paolo Sorrentino
Medusa

 

Eleonora Saracino

Eleonora Saracino, giornalista, critico cinematografico e membro del Sindacato Critici Cinematografici Italiani (SNCCI), si è laureata in Storia e Critica del cinema con una tesi sul rapporto Letteratura & Cinema. Ha collaborato con Cinema.it e, attualmente, fa parte della redazione di CulfFrame Arti Visive e di CineCriticaWeb. Ha lavorato nell’industria cinematografica presso la Columbia Tri Star Pictures ed è stata caporedattore del mensile Matrix e della rivista Vox Roma. Autrice di saggi sul linguaggio cinematografico ha pubblicato, insieme a Daniel Montigiani, il libro “American Horror Story. Mitologia moderna dell'immaginario deforme” (Viola Editrice).

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