BRUCEXPLOITATION: intervista a Bruce LaBruce

Il dibattito critico attorno alla pornografia si è riacceso attorno agli anni ’90, quando l’industria dell’hard ha percepito le avvisaglie di quel cambiamento epocale che sarebbe stato l’avvento del web di massa, fenomeno esploso di lì a poco.
Sia per le ripercussioni antropologiche che per le problematiche estetiche che il cosiddetto “new porn”(1) ha portato alla luce, la riflessione critica attorno al tema delle filmografie hardcore si è intrecciata alla sociologia, ai cultural studies e ha trovato terreno fertile in tutte le aree di pensiero liminali rispetto all’arte visiva, alla body performance, al movimento queer(2) e al post-femminismo.
In questo calderone di controcultura e teorizzazioni accademiche, situzionismi e sperimentazioni politiche sul corpo, emerge la figura di Bruce LaBruce, regista e fotografo di Toronto.
Bruce LaBruce ha intuito il nucleo problematico del linguaggio pornografico in tempi non sospetti e, come un vero guerrillero della macchina da presa, ne ha utilizzato segni e simboli per dare forma a una poetica estrema, che abita i sotterranei dell’underground e della cultura queer ma viene costantemente corteggiata dalla cinematografia ufficiale.

Attivo dagli anni ’80, LaBruce inizia la sua carriera editando una fanzine divenuta ben presto di culto, JD’s. Incentrata su un’estetica dichiaratamente feticistica, JD’s porta alla ribalta le istanze del movimento queer, fino ad allora relegato al sottobosco underground delle autoproduzioni e degli ambienti sadomaso. Il lavoro del regista è destabilizzante sin dagli esordi, quando ancora è immerso nel punk ma cerca, al contempo, di mettere in discussione la componente omofoba della stessa corrente nichilista. Dalla grafica alle immagini in movimento il passo è breve e il salto al cinema in Super-8 completamente naturale, anche perché LaBruce studia cinema e fotografia. La sua filmografia comprende dodici opere tra cui The Post Queer tour (1992), No Skin Off My Ass (1993), Super 8 ½ (1993), Hustler White (1996, con Tony Ward, ad oggi uno dei suoi film più celebri), Skin Gang (1999), Otto: Or Up with Dead People (2008) e L.A. Zombie (2010). Una  produzione cinematografica che ha trovato visibilità soprattutto nel circuito dei festival, delle rassegne e dell’homevideo, proprio per la critica violenta che mette in atto nei confronti della cosiddetta società civile e che si traduce in un cinema estremo, non condiscendente verso lo spettatore.

LaBruce compie una parabola in crescendo, partendo dai primi lungometraggi per approdare alle più recenti produzioni, tematicamente ancora scabrose ma esteticamente decisamente più ricercate e venate di humor nero, sebbene sempre coraggiosamente low budget. Il suo cinema, all’apparenza disturbante ed eccessivo, a uno sguardo più attento rivela un’intrigante cinefilia e un impianto teorico solido. Dai richiami all’arte – in Hustler White, ad esempio, recita anche l’artista e performer estremo Ron Athey – ai rimandi ad autori del calibro di Godard, Romero, Mario Bava, Herschell Gordon Lewis, la ricerca di LaBruce spazia dal maudit Nick Zedd a Gus Van Sant, autore e amico, la cui poetica sembra essergli profondamente affine nei temi della marginalità e con cui condivide lo sguardo sull’America, uno stato dell’essere più che un luogo, che pervade i personaggi del suo cinema e li impregna di solitudine.
Lo stesso gusto della marginalità, i temi del feticismo e dell’esibizionismo si ritrovano nel lavoro fotografico di LaBruce, a tratti più estetizzante della produzione cinematografica, che richiama alla mente certi adolescenti di Larry Clark, Terry Richardson e, ovviamente, l’iconografia di Robert Mapplethorpe.

Proprio in occasione della pubblicazione della prima monografia in italiano, BruceXploitation, edita da Atlantide Press, che presenta in particolare il suo lavoro fotografico, abbiamo incontrato il regista di Toronto per una intervista.

Hai sempre usato il cinema come strumento di critica alla middle-class: cosa è cambiato dagli inizi ad oggi?

La cosa strana è che quando facevo i miei primi film negli anni ‘80 ero coinvolto nella scena punk, che era una reazione all’ondata di conservatorismo che c’era in quel momento in America. Era l’epoca di Ronald Reagan, a sua volta una reazione agli anni ‘60 e ‘70 più “sinistrorsi”. Anche allora, negli anni ‘80, pensavo che il movimento gay fosse molto borghese, middle class, dominato dal “maschio bianco”. I punk reagivano a quel tipo di valori medio borghesi. Pensare adesso, 25 anni dopo, come le cose siano diventate ancora più conservatrici, in un modo che non ci saremmo mai immaginati, sia nella scena gay che nella cultura americana… Questo tipo di regressione negli Stati Uniti permette alla destra di mettere in discussione temi come la scienza, l’evoluzione, le basi e le premesse intellettuali del pensiero progressista. Per questo penso che oggi il mio lavoro abbia ancora più rilevanza, perché continuo a fare lo stesso tipo di ricerca che sfida lo status quo, che mette in discussione l’autorità, che mantiene una sensibilità progressista e che è, in qualche modo, “sovversivo”. E’ più importante che mai, più necessario che mai.

Come osserva Alessandro Rizzo, autore della tua monografia, il tuo lavoro si inscrive in quel filone autoriale che annovera autori come Kenneth Anger, Andy Warhol, Jack Smith, Jarman e il primo Waters. Pensi che il tuo cinema sia stato maggiormente influenzato dalle sperimentazioni delle avanguardie o dal cinema classico hollywoodiano?

Questo è il punto in cui le persone vedono delle contraddizioni nel mio lavoro, non riescono davvero a comprendere il fatto che io metta insieme idee contraddittorie e generi che finiscono per diventare una sintesi imprevedibile di idee che sembrano inconciliabili. Per questo trovo interessante i movimenti punk, skin, il movimento antiborghese, uno sguardo e una sensibilità old school gay. Tutto questo ha molto a che fare con un gusto per la Hollywood classica, il melodramma, i media di massa e la cultura pop. E’ un po’ quello che faceva Warhol nei suoi film: ha realizzato un microcosmo hollywoodiano nella sua Factory creando le sue star, di fatto si trattava di persone che lui incontrava anche solo per strada e che portava nel suo studio e trasformava in superstar. Ha creato un sistema nella Factory attraverso il quale ha prodotto dei film basati sul vecchio modello hollywodiano.

I riferimenti dei miei film combinano l’underground con un’iconografia più popolare. In fondo non mi sembra così contraddittorio, anche perché se confrontiamo la Hollywood degli anni ’30 con quella di oggi, la prima ci sembra molto più consapevole della “questione di classe”. Molti dei film fatti negli anni ‘30 e ’40, di fatto, trattavano della working class o comunque avevano una coscienza di come la classe dirigente si rapportasse alla classe operaia. Anche perché il cinema era un media concepito per rivolgersi a un’audience molto ampia, la classe operaia così come la classe media. Vi era una complessità sociale che oggi non c’è. Nella Hollywood contemporanea è tutto relazionato ad una sorta di pornografia da “piccola proprietà immobiliare”.

La pornografia è uno dei temi centrali del tuo cinema. In questi ultimi anni è molto cambiata, abbiamo assistito all’avvento del cosiddetto “post-porno” e della diffusione dell’amatorialità e di shortclip sui siti hardcore. In qualche modo, la pornografia mainstream è stata addomesticata dalla sua diffusione capillare. Cosa pensi di questo “new porn”?

Addomesticato è una parola interessante. Potresti dire che è più democratico. tutti adesso hanno accesso al porno, chiunque può girare il suo porno e caricarlo su un sito internet, non devi più solo essere un consumatore passivo ma puoi diventare un partecipante attivo. Le persone usano i siti web e ci mettono le proprie foto mentre fanno sesso o mentre sono nude, semplicemente come uno strumento sociale per incontrare altre persone o amanti. Quindi si tratta di una democratizzazione ma anche di un addomesticamento, è una normalizzazione del genere. In qualche modo ha distrutto il porno vecchio stile, che era fatto soprattutto di produzioni indipendenti, specialmente prima dell’avvento del video. C’erano un sacco di film realizzati da filmakers nel loro tempo libero, che non sapevano ma stavano facendo porn art. Quel tipo di porno era più ricco, più complesso, aveva elementi narrativi interessanti, personaggi forti ed erano anche formalmente più complessi. Era un modo per le persone di esplorare le proprie fantasie sessuali, addirittura le fantasie sessuali sociali, e nello stesso tempo i film erano opere d’arte con una certa complessità. Penso che ora il tutto si sia un po’ ridotto, con il nuovo stile di porno, la visione è diventata a “tunnel”, si concentra esclusivamente sull’atto sessuale. La narrazione è pretestuosa, anche i miei amici che fanno porno o quelli che hanno una casa di produzione stanno perdendo interesse, si lamentano di dover fare un certo numero di scene di sesso a settimana, devono sempre fare un nuovo prodotto, perché la gente è affamata di continui nuovi contenuti ma si disinteressa del concept o della narrazione. E’ molto meno interessante anche per me. In un certo senso penso che la democratizzazione del porno sia una cosa positiva ma ha limitato quello tradizionale.

La scena punk e la cultura queer sono il tuo background, da cui provengono l’attenzione per i soggetti marginali e l’utilizzo della violenza o di temi scabrosi come elementi linguistici. A proposito di questo tema, come ti poni come autore rispetto alla rappresentazione della violenza?

I miei primi lavori non contenevano molta violenza, erano più incentrati sul feticismo, su dominazione e sottomissione, avevano a che fare con personaggi emarginati come gli skinheads. E’ con Hustler White che sono entrato in contatto con gli aspetti più estremi della sottocultura della prostituzione maschile di Los Angeles, un mondo molto duro che può essere pericoloso e violento. Quel film aveva anche elementi documentaristici, la prostituzione maschile di strada a Los Angeles stava lentamente scomparendo: in parte a causa di internet, tutto il sesso a pagamento si trasferiva on line, tutte le marchette subivano le retate della polizia… Noi abbiamo documentato l’ultimo periodo di storia di lunga data e abbiamo intervistato molti prostituti, protettori e i loro clienti. Ci hanno raccontato molte storie violente, delle loro vite di emarginati a Hollywood.

Sono sempre stato interessato a come la violenza viene ritratta nella cultura pop, nei media di massa. Un mio personaggio nel film Otto, Medea, che è una regista, dice: – “La morte è la nuova pornografia”. Ha un modello di come la morte, la violenza, la guerra, il terrorismo siano rappresentati, impacchettati come prodotti d’intrattenimento o di pornografia, un tipo di sfruttamento cinico delle paure delle persone sul terrorismo. Io personalmente odio la pornografia che mette in scena torture, specialmente se è fatta dall’industria. Nelle mie fotografie ho cercato di fare una sorta di “Bibbia dell’underground”, sempre mantenendo una certa distanza e attraverso un’analisi critica di quel tipo di immaginario violento, sempre con quella che chiamerei una coscienza di classe. Per me non è solo uno sfruttamento di un tipo di paure, ma un’analisi di esse e un tentativo di rielaborazione emotiva. Ho un background accademico e inizialmente volevo svolgere attività critica. Ho studiato cinema e sociologia, quindi ho sempre avuto una distanza critica e una forma di alienazione rispetto a quell’immaginario.

Tu sei un regista ma anche un fotografo: vuoi parlarmi del tuo rapporto con la fotografia?

Quando ero al primo anno di scuola abbiamo studiato fotografia. In me c’è un forte legame tra la fotografia e le immagini in movimento. Il secondo anno abbiamo studiato Super 8, quindi nel mio background c’è anche quello, ho cominciato a fare pellicole sperimentali. Poi ho iniziato a pubblicare una fanzine: c’era sempre bisogno di contenuti, quindi facevamo fotografie o ingrandimenti dai frame dei nostri super 8. Ho sempre avuto questo tipo di approccio multimediale. Poi quando ho iniziato a fare i miei primi film ho mantenuto l’abitudine di scattare molte fotografie sul set. Per me sono strettamente connessi.

Negli ultimi due film che hai realizzato, Otto e L.A. Zombie, la figura del protagonista è quella di uno zombie, una figura molto “politica”. Mi interessa il ribaltamento di prospettiva, dato che lo zombie è sempre una figura senza individualità, l’antagonista malvagio. Puoi spiegarmi da dove nasce questa idea?

Ero interessato agli zombies come idea, come un concetto o metafora. Penso che i nuovi film li rappresentino come individui senza importanza, dei senzatetto, come individui di una classe sociale emarginata, usa-e-getta. Stranamente, come una classe totalmente emarginata, sono persone alle quali puoi anche sparare senza avere nessuna preoccupazione morale. Mi ero stancato di questo tipo di rappresentazioni, cominciavo a dispiacermi per gli zombies – anche se sono infettivi e possono ucciderti – per la maniera in cui erano rappresentati, come dei perdenti. Poi ho visto questo bellissimo film francese Les Revenants, saranno stati otto anni fa. E’ un film “zombie-intellettuale”, ambientato in una piccola città dove un giorno tutti i morti ritornano ma non esattamente come zombies. Hanno abiti molto proletari, sono come ombre di quello che erano stati, quindi indossano vestiti neutri, possono pensare ma le loro facoltà intellettive sono limitate, sono quasi come sonnambuli. Tutti devono avere a che fare con queste persone che erano morte, e loro hanno dei ricordi del passato. Questo mi ha fatto pensare: – “perchè gli zombies non possono avere ricordi di quando erano vivi? E se una questa classe discriminata allora perché non meritano un po’ di umanità?”. Ho fatto una connessione tra loro e i gay e di come siano sempre stati emarginati.

Il protagonista di L.A. Zombie (presentato a Locarno lo scorso anno, ndr) è François Sagat, un’icona del cinema porno gay. Come scegli gli attori per i tuoi film e che rapporto hai con l’idea di feticismo?

Si tratta di persone che conosco, di cui vengo a conoscenza tramite altre persone, amici di amici o che mi vengono segnalate.
Prima che François diventasse celebre, l’avevo scritturato per un fashion film e avevo cambiato idea all’ultimo minuto a causa del tatuaggio che ha sulla testa, che mi sembrava inappropriato. Poi mi sono pentito e mi è sempre rimasto il pensiero. Così ho cominciato a guardare i suoi film su Youtube dove fa cose molto interessanti, come prendere steroidi. E’ molto analitico riguardo il suo ruolo, lui dice sempre che si sente una sorta di performer transgender, perché prende steroidi e trasforma il suo corpo in una sorta di falsa mascolinità, iperbolica. E’ più di tutto una performance sul genere sessuale.
Ho sviluppato L.A. Zombies come uno strumento per lui, gli ho chiesto se era interessato e lui ha confermato. Poi ci sono state altre situazioni interessanti, quando ho per esempio incontrato attori molto forti per il ruolo principale di capo dei terroristi rossi in un altro mio film. Tre settimane prima di girare non avevo ancora trovato nessuno e il mio amico Vaginal Davis mi dice: – “Oh Bruce, devi usare Susanne Sachsse, lei è tedesca, è molto interessata anche se non è gay. Ha una sensibilità queer e fa performance nei teatri alternativi!”. Lavoro con qualcuno che ha lavorato con qualcun’altro di cui mi fido tanto.

Parte del mio progetto è sempre stato quello di mostrare feticismo estremo, non avere paura di rappresentare cose proibite, tabù e cose di cui non si può parlare, territori proibiti. Nel cinema è esattamente il territorio che mi interessa. Da una parte c’è l’idea di censura e di autocensura per la quale non dovresti neanche pensare certe cose, il politicamente scorretto. Per qualche motivo, come filmaker queste sono esattamente le tematiche verso cui mi sono diretto.

Credi che il cinema possa essere “rivoluzionario”?

In questo (nell’affrontare il politicamente scorretto e i territori del proibito, ndr) il cinema può essere rivoluzionario, è in questo che sta la sua parte rivoluzionaria. Ho parlato con molti registi mainstream come Paul Verhoeven, Joseph Stefano, lo sceneggiatore di Psycho, e mi hanno detto che avrebbero sempre voluto fare porno. E lo stesso Hitchcock avrebbe voluto farlo.

Davvero?

Sì, perché credo che ogni regista sia attirato da quello che non dovrebbe rappresentare. E’ una seduzione o un’attrazione naturale, ogni regista vorrebbe spingersi dove nessuno è stato prima. E’ questo il potenziale rivoluzionario del cinema.

——–

1) Ricordiamo, su tutti, la biografia-manifesto di Annie Sprinkle Post Porn Modernist.  Venerea Edizioni, 2005 e Nadine Strossen, Difesa della pornografia. Le nuove tesi radicali del femminismo americano. Roma, Castelvecchi, 1995.

2) Per quanto riguarda la teoria queer, rimandiamo agli studi fondamentali di Teresa de Lauretis, in particolare Queer Theory: Lesbian and Gay Sexualities. Indiana University Press, 1991, Soggetti Eccentrici. Milano, Feltrinelli, 1999 e Théorie queer et cultures populaires: de Foucault à Cronenberg. La dispute, 2007.

(Traduzione di Sarah Branduardi e Silvia Bottani)

© CultFrame 11/2011

 

IMMAGINI
1 Copertina della monografia BruceXploitation
2 Bruce LaBruce
3 Frame del film Otto
4 Frame del film L.A. Zombie 

CREDITI
BruceXploitation. Monografia di Bruce LaBruce / Edizioni: Atlantide Entertainment / Queer Frame / Pagine: 152 / Prezzo: 39,90 € o 49,90 € (con dvd di LA. Zombie)

LINK
CULTFRAME. L.A. Zombie. Un film di Bruce LaBruce
Il sito di Bruce LaBruce
Filmografia di Bruce LaBruce
Atlantide Entertainment
Queer Frame

 

 

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