Del 1979 è la prima edizione di Fotografia e inconscio tecnologico di Franco Vaccari, a seguire altre due, nel 1994 e nel 2011, ambedue con testi e paragrafi aggiunti. Tra le molteplici affermazioni che contraddistinguono la presa di posizione di Vaccari ne scelgo due che a mio avviso saranno esemplari per quanto vorrò poi esaminare (dalle pagine 14 e 18 dell’edizione Einaudi 2011 a cura di Roberta Valtorta):
“La fotografia diventa così un mezzo particolarmente adatto per ottenere informazioni già codificate secondo regole che sono una sintesi di questa fase di civilizzazione.”
“Quello che invece noi proponiamo è l’abbandono del continuo e implicito riferimento all’uomo per sostenere un radicale spostamento del punto di osservazione verso lo strumento, che deve essere visto come dotato di un’autonoma capacità di organizzazione dell’immagine in forme che sono già strutturate simbolicamente, indipendentemente dall’intervento del soggetto. All’inconscio ottico di Benjamin con polarità sull’umano suggeriamo di aggiungere l’inconscio tecnologico con polarità sullo strumento.“
Vengo al punto. Qualche tempo fa una riflessione di Maurizio G. De Bonis, proprio su questa testata, poneva di nuovo l’attenzione su un interessante dilemma che si ripropone da tempo: L’abisso della fotografia, tra realtà e non realtà. Si è acceso un dibattito che ha visto la partecipazione di diversi punti di vista ed in generale le aspettative e le prese di posizione, anche se ampie e diversificate, sono state tutte di parte, e cioè antropocentriche. Detto questo non voglio affermare che la lezione di Vaccari sia da prendere come una verità assoluta, e penso anche che lui stesso se ne guarderebbe bene dall’affermarlo, ma prenderla in seria e debita considerazione sì. Se non altro vi sarebbero altri parametri da prendere in esame quando si affrontano i temi relativi alle possibili realtà esperibili ed esprimibili dall’uso dello strumento fotografico, nelle e per le sue specificità tecnico logiche.
Vogliamo cominciare a porci come ambito di indagine anche i suggerimenti che, oramai da tempo, Franco Vaccari ci propone? E cosa cambierebbe se accettassimo di prenderli con la dovuta attenzione? Provo a lanciare un argomento. Prendiamo in considerazione una fotografia come una possibile realtà osservata da una posizione che non è la nostra, anche se siamo noi ad incentivarla e concluderla, ma da uno “sguardo” a cui non possiamo fare diretto riferimento. Potremmo trovarci così in una posizione di distacco necessario che ci possa indurre, indicare una sospensione dal pensiero razionale e, forse, entrare in risonanza diretta con l’oggetto osservato. Inoltre, il poter prendere le distanze da porzioni di ciò che ci circonda per riosservarle da altre prospettive ci permetterebbe di riappropriarci, pertanto di rimettere in discussione, la nostra posizione nel mondo, allo spazio del mondo. Come vogliamo definirlo, un salto antropologico? Direi più semplicemente un osservare, un porre l’attenzione sugli accadimenti, non tanto in relazione alla nostra realtà, alla dualità oggetto soggetto, che è e sarà sempre presente, ma anche ad un altro attore, “alla relazione tra le cose”, ed in questo caso tra organizzazione dell’immagine e inconscio tecnologico.
Questa posizione potrebbe essere non solo una forma di pensiero, un concetto filosofico, qualcuno dirà di utopismo fine a se stesso, ma la constatazione reale di un possibile mettersi a disposizione del mondo, con la registrazione di un evento al di là delle nostre aspettative usuali ed osservabili tramite lo strumento fotografico che con distacco ce ne offre testimonianza. Ulteriori ed interessanti indicazioni possiamo ricavarle anche dalla riflessione di Pier Paolo Fassetta, sempre in questo spazio di discussione, Lo sguardo della webcam.
A mio avviso la lettura o la rilettura del testo Fotografia e inconscio tecnologico ci potrà aiutare a riflettere sicuramente su questioni di attualità inerenti non solo all’ambito fotografico. Non ultimo quello di identità.
© CultFrame – Punto di Svista 11/2011