Speedway King. Videoclip di Dirty Beaches diretto da Alex Zhang Hungtai

SCRITTO DA
Antonio Laudazi

Il trentenne Alex Zhang Hungtai, alias Dirty Beaches, è riuscito attraverso il revival a rappresentare nientemeno che il suono della morte, o meglio, della coscienza di essa. Attingendo a piene mani da un periodo abbastanza preciso, tra la seconda metà dei ’50 e la prima dei ’60, il musicista Taiwanese (di stanza tra Stati Uniti e Canada) restituisce un passato distorto, disturbante nella propria deviata (ir)riconoscibilità.
Sostituendo la nostalgia con l’allucinazione e il degrado, quel passato (sono gli anni del rock’n’roll, della spensieratezza, della brillantina e dei baci rubati. Pochi approssimativi elementi che costituiscono l’immaginario dei trentenni di oggi, coetanei del Nostro e principali destinatari di questa musica) perde così i suoi colori pastello, per sciogliersi in una torbida e angosciosa sequenza di oggetti-simbolo; qualcosa che, in quanto trascorso e irrecuperabile, è da considerarsi necessariamente morto. Lo spettro di un’epoca.

 Tale idea di rappresentazione, che già possiede una forte componente visuale e immaginifica, trova conferma nel videoclip del brano Speedway King (dall’album Badlands), diretto dallo stesso Hungtai.
Da un bianco e nero saturo e particolarmente oscuro, emergono le suggestioni notturne di un luna park a tema fatto di stelle, intermittenze luminose e pinups. Nel mentre, da qualche parte, si consuma il vagare in auto senza meta, per le vie della città e fuori – buio, pioggia battente e vetri appannati – lungo strade perdute che molto devono al cinema di David Lynch.
Su tutto la figura di Elvis: nello stile vocale dichiaratamente derivativo, e nelle immagini, dove The King (appunto) compare dipinto e immobile, circondato dalle mille lampadine di un’insegna, come una squallida icona all’ingresso di un santuario corrotto.
La musica è tetra, dissonante, erosa, echeggiante, ossessiva, sfacciatamente low-fi. Sovrapposta alle immagini genera una concezione perturbante della memoria: dimenticare è come non aver vissuto? E come possiamo ricordare ciò che non ci appartiene?

Lo scenario si manifesta attraverso una sorta di soggettiva visionaria e frammentata, nella quale riconosciamo il persistere di uno sguardo interno dal vorticare allucinato che ha in sé l’ebbrezza di una notte brava e la discontinuità del sogno più inquieto (inteso come anticamera della morte). In un contesto fortemente erotizzato, reso a mo’ di collage con ritagli di pornografia vintage, la macchina da presa arriva addirittura a cercare l’atto sessuale, battendo ripetutamente contro l’illustrazione di una signorina a dir poco discinta. Si va così a simulare lo scavalcamento maldestro del confine della rappresentazione verso la dimensione del gesto, indicando in questo senso il fallimento insito nel tentativo di rivivere il passato in prima persona.
La memoria come mezzo dell’esperienza ne risulta sconfitta, illusoria. Il passato, anche nelle sua declinazione “pop” di oggetto di consumo artistico e di massa, diviene luogo di esperienze mortifere e ambigue (l’ambivalenza – ancora lynchiana – delle ambientazioni, come il luna park e la speedway, e il potere esorcizzante e distruttivo del sesso).

Emblematico il finale, in cui un filmato amatoriale che ritrae il giovane Elvis in compagnia di una donna e di una bambina (probabilmente la moglie Priscilla e la figlia Lisa Marie) viene sovrapposto all’immagine di un luogo deserto (forse lo stesso dove fu girato il filmato stesso), mentre il rumore manipolato di un treno in corsa, ci ricorda che dalle spiagge sporche del tempo non si può proprio fuggire.

© CultFrame 11/2011


CREDITI

Brano: Speedway King / Artista: Dirty Beaches / Regia videoclip: Alex Zhang Hungtai / Album: Badlands / Etichetta: Zoo Music / Anno: 2011

LINK
Dirty Beaches
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