Passatemi la provocazione inserita nel titolo di questo articolo, che ovviamente andrò ad argomentare qui sotto. Si tratta di un modo, forse tranchant ma utile, per evitare di girare intorno al problema che vorrei affrontare.
Detto ciò, cerchiamo di far partire un ragionamento da due quesiti. Il mondo della fotografia è dominato da dogmi e pregiudizi? L’immagine che la fotografia contemporanea veicola del nostro Paese (e non solo) è zeppa di stereotipi?
Ebbene, queste sembrano le domande che emergono dall’interessante articolo scritto da Mario Cresci per l’inserto culturale del Sole 24 Ore di domenica 11 dicembre 2011 (titolo: Il Belpaese e i suoi stereotipi – pag.34). Pensate che Cresci, in questo suo testo di rara lucidità, osa niente meno che andare a “toccare” l’immagine più protetta e idolatrata del panorama fotografico mondiale, una specie di oggetto di culto custodito in un “sancta sanctorum” inviolabile, cioè proprio la figura “maltrattata” nel titolo: Henri Cartier-Bresson.
Sono d’accordo che a causa dell’adorazione “religiosa” nei riguardi di questo fotografo e delle sue affermazioni sulla fotografia si è in parte cercato di ostacolare (almeno in certi settori… vedi reportage) una vera e approfondita crescita delle possibilità espressive che scaturiscono dal linguaggio fotografico. E proprio per tale motivo che è divenuto quasi impossibile mettere a fuoco la grandezza di questo fotografo al di fuori dello stereotipo dentro il quale è stato ingabbiato.
Personalmente, ad esempio, non ho mai considerato così centrale la questione dell’ “istante decisivo”. Mi è via via sembrata, nel corso delle mie riflessioni sulla fotografia, una soluzione semplificatoria, ed esclusivamente suggestiva, rispetto agli enormi problemi teorici che poneva, e pone tuttora, la fotografia (compreso il complesso lavoro di Cartier-Bresson).
Come riporta Cresci nel suo articolo, Cartier- Bresson scrive:
“prendere al vivo delle foto come delitti in flagrante… cogliere in una sola immagine l’essenziale di una scena che sta verificandosi”.
Ebbene, ricondurre la fotografia a questa pratica creativa è riduttivo, consolatorio e prevedibile. E in ogni caso si tratta di un’idea, sulla quale si può/deve discutere civilmente e democraticamente. Invece, si ha sempre l’impressione che nell’ambiente fotografico ci siano degli “intoccabili”.
E Cartier-Bresson è uno di questi.
Tale situazione non è assolutamente riscontrabile nel mondo della letteratura e del cinema, ambienti nell’ambito dei quali si riesce a ragionare in modo decisamente più libero. Nel mio percorso di critico cinematografico ho portato avanti innumerevoli “duelli” con colleghi e cinéphiles riguardo idee e storie artistiche concernenti autori su cui ci si trovava su fronti totalmente contrapposti. Nel campo del cinema non esistono intoccabili. C’è chi detesta (con argomentazioni proprie e molto articolate), e lo dice apertamente, perfino registi del calibro Stanley Kubrick, Federico Fellini, David Cronenberg e Jean-Luc Godard. Tutti sono criticabili, ogni teoria discutibile, per fortuna. E di certo non si prende per oro colato quello che di volta in volta sostengono cineasti, sceneggiatori e direttori della fotografia (e mettiamoci anche i critici). Io per esempio, dopo un primo periodo di fascinazione, ho iniziato ad avere forti perplessità riguardo a due cineasti di culto degli ultimi venti anni: Quentin Tarantino e Lars Von Trier.
E, pensate un po’, non mi è ancora arrivato un fulmine sulla testa.
Ebbene, perché non è possibile dire, come io sostengo, che Henri Cartier-Bresson è molto più significativo come autore, in un certo periodo, contiguo al surrealismo (e mi interessa anche molto il C.-B. ritrattista) piuttosto che come profeta dell’istante decisivo? È proprio questo atteggiamento che finisce per produrre stereotipi e una fotografia standardizzata. Come sostiene Cresci sul Sole 24 Ore (su impulso di Walter Benjamin), il pericolo maggiore è poi quello delle “immagini spettacolo”, fondate su concetti bloccati che tendono ad “alterare le attribuzioni di senso al soggetto ripreso”.
Ma chi contrappone Mario Cresci a questo sistema così rigido? Ovviamente e giustamente, la figura di Ugo Mulas. A tal proposto, scrive una frase tra le più precise e utili che mi sia capitato ultimamente di leggere (ma dai contenuti già noti per chi ha studiato il fotografo in questione):
“Mulas non fotografa, ma sceglie l’oggetto del suo pensiero, si occulta come fotografo, ma si rivela come artista…”.
Queste affermazioni consentono di aprire un vasto territorio di approfondimento, nel quale lo stesso autore dell’articolo approda in maniera felice quando afferma che esistono
“l’assenza di certezze teoriche nell’analisi della fotografia e… la richiesta di un suo diverso uso che non sia rivolto ad una sola dimensione del mezzo”.
Sono considerazioni che personalmente accolgo con la dovuta attenzione. Magari si potrebbe ripartire proprio da questi due punti per cercare, nel confronto dialettico delle opinioni, una maniera più libera e meno oppressivamente dogmatica di lavorare sulla fotografia e, infine, per rendere giustizia alla figura di Henri Cartier-Bresson, liberandola dalla prigione costruitagli attorno dalle certezze altrui e riportandola dal paradiso vacuo dei miti all’inferno sostanzioso e umano della fotografia terrena e della diversità di opinioni.
Continua Non si vive di solo Cartier-Bresson. Parte II
© CultFrame – Punto di Svista 12/2011