Shin’ya Tsukamoto

Shin’ya Tsukamoto. 1 gennaio 1960 (Tokyo)

Sezionare il corpo per trovare le tracce dell’anima. Intuire il sogno, recuperare la memoria. Raccontare la tragedia umana all’interno di spazi metropolitani transitori. Passare da uno stadio materico all’altro. Il cinema di Shin’ya Tsukamoto si muove spesso in luoghi oppressivi – multiformi piani urbani – che agiscono fatalmente sul corpo/uomo, ne costringono l’adattamento e ne scatenano la ribellione. Gli elementi si compenetrano, il visivo e il sonoro vivono di pulsazioni simultanee, il metallo della città si unisce alla carne: l’uomo, l’arma e la volontà diventano una cosa sola.
Nella serie di film dedicati a Tetsuo (The Iron Man, Body Hammer, The Bullet Man), Tsukamoto utilizza la mutazione-analogica per dissezionare l’uomo moderno, abitatore di metropoli. Un incidente con la macchina e il ferimento di un “feticista del metallo” innescano la maledizione. Il corpo si trasforma. All’inizio è una punta m

etallica che fuoriesce dalla guancia, il sintomo di una malattia. Il metallo si espande, crea una nuova pelle. L’uomo diventa un altro uomo, un androide/automa dalla forza inarrestabile, alimentata dalla rabbia. Tetsuo ha una missione: distruggere. La città verrà distrutta, poi ricostruita, poi distrutta nuovamente da un nuovo Tetsuo. Nell’urlo dell’androide c’è la rabbia, la forza, ma anche il dolore e la morte. La sua potenza devastatrice è la reazione al disagio, all’oppressione, alla sopraffazione. In tutti e tre i Tetsuo, l’uomo/androide si confronta con un doppio, un nemico che si inietta parti metalliche in corpo e che diventa poi complemento del nuovo Tetsuo. Questo doppio (Metal Fetishist) è interpretato da Shin’ya Tsukamoto.
Attore, ma anche scenografo, montatore e produttore, oltre che regista dei suoi film, Tsukamoto cura le sue creazioni sotto ogni aspetto, imprimendo in esse un marchio di forte omogeneità e di espressione ritmica (nel senso di una sintonia quasi tangibile tra immagine e suono). Questo approccio, oltre che eliminare gerarchie e subordinazioni tra le diverse parti della messa in scena, rende le sue opere dei microcosmi autonomi eppure collegati tra loro da un flusso continuo, mutante e germinale.

Nel 1987, Tsukamoto realizza Denchu-kozo no boken, tradotto in Italia con Le avventure del ragazzo del palo elettrico, un mediometraggio in 16mm che si presenta come un ibrido tra la fiaba e il manga. Hikari, un ragazzo con un palo elettrico attaccato alla schiena (naturale propaggine metallica del suo corpo di carne), emarginato e preso in giro dai compagni, si infila in un buco spazio-temporale e viene spedito in un mondo futuro, o mondo analogo (the greate analog world è la scritta che compare all’inizio), in una città oscura dominata dai vampiri Shinsegumi. I vampiri hanno coperto il cielo di nubi, grazie alle esplosioni delle bombe Adam Junior, e aspettano la creazione di una nuova super-bomba, Adam Special, che nascerà dal ventre di una donna, Eva. Hikari trova, in uno degli anfratti di una città devastata e dimenticata, la professoressa Sariba, la quale riconosce nel ragazzo l’eroe predestinato che salverà l’umanità, e proprio per questo gli dona una luce simbolica da attaccare al palo.
Alla base di Denchu-kozo no boken troviamo l’atavico confronto tra Luce e Tenebra, ma anche l’idea di una storia che si ripete (creazione e distruzione). Questo universo narrativo viene costruito nei vicoli e negli appartamenti di Tokio, privati di segni, coordinate e di qualunque effetto di realtà. I movimenti di macchina – spesso a mano – e la dinamicità da videoclip delle immagini; l’animazione a passo uno e le caratterizzazioni manga dei personaggi; la partitura cromatica e la drammaturgia dell’illuminazione si compenetrano e fanno parte di un testo filmico video-ludico e comico. La musica, elemento attivo di scontro e incontro con le immagini (in un rapporto di tensione), partecipa della specificità dell’opera. La struttura cibernetica composta da tubi, fili, marchingegni e fumo che avvolge Eva, la donna che è madre e morte, l’organismo che alimenta la bomba atomica, presenta i prodromi di Tetsuo: sul corpo della donna, dopo l’accoppiamento sessuale con un vampiro, agiscono le componenti elettroniche e metalliche, mutandone la forma.

Nella trilogia di Tetsuo, lo spazio urbano si fa proiezione dell’angoscia dell’uomo, al punto tale da provocarne la trasformazione. I luoghi della Tokio moderna, frazionata e mai identificata in un piano totale, sono prigioni organiche che avvolgono l’individuo, gli iniettano il nuovo tessuto metallo/carne che prende possesso del suo corpo. L’uomo si tramuta in un’arma. L’arma distrugge la città che poi verrà ricostruita dall’uomo stesso. Dietro le quinte di Tetsuo c’è una città che, dopo la guerra e i bombardamenti, è stata ricostruita e ricoperta da un nuovo tessuto di strade, muri e grattacieli. Le protuberanze di metallo e cemento occludono lo sguardo, lo frammentano, lo riducono, lo ricreano. Tetsuo trova la bellezza nell’atto della distruzione.

Trovando terreno fertile nelle cine-mutazioni di David Cronenberg, nelle sperimentazioni del primo Lynch e nelle cyber-creature di HR Giger, ma anche nei manga e nei mostri del cinema fantascientifico giapponese, lo sguardo di Tsukamoto è un “oscuro scrutare” nelle viscere dell’uomo attuale. Attraverso l’utilizzo di una musica, lo abbiamo sottolineato, che contrasta e al contempo fa da potenziale vettore alle immagini; delle sperimentazioni visive che si fanno via via più precise; e del suo stesso incarnato (Tsukamoto/attore), crea una video-massa roboante e vibrante, che preme l’inquadratura dall’interno. Prendiamo una delle sequenze iniziali di Tetsuo I – The Iron Man. Dopo aver investito un uomo, Tomoroh Taguchi comincia a subire allucinazioni. Lo vediamo in non-luogo industriale, le luci gli pulsano addosso, il commento sonoro è come un martello: il corpo dell’uomo si scuote, viene mosso dall’interno, ogni movimento è come una scarica elettrica. Da destra scorre il titolo, Tetsuo, che ha la consistenza delle onde elettromagnetiche disturbate. Quel titolo è un marchio, è come se venisse impresso sull’immagine, richiamando ancora una volta l’aspetto plastico – malleabile, organico, robotico – del corpus filmico di Tsukamoto. Le immagini di Tetsuo sono alimentate da pulsioni di vita e pulsioni di morte. Tomoroh Taguchi, nella mutazione, perde il controllo del proprio corpo: la pelle si ricopre di tubi e fili, il pene (l’identità sessuale) si tramuta in uno strumento di morte. L’incarnato si frantuma, diventa concrezione di materie diverse, assume l’aspetto pulviscolare di una scarica di onde elettromagnetiche. Tetsuo reagisce all’oppressione, urbana e sociale – ma anche radioattiva. Vuole sopravvivere al male che minaccia di ucciderlo, e per farlo deve distruggere.
L’uomo, in Tsukamoto, lotta strenuamente contro un nemico multiforme da lui stesso creato, ed è significativo che la seconda pelle di Tetsuo faccia parte dello stesso tessuto che ricopre la metropoli. In un articolo sul rapporto tra Tsukamoto e Tokio, Alberto Momo accenna alla struttura delle case tradizionali giapponesi, luoghi dove non c’è mai una netta separazione tra gli spazi, anzi, vi è la compenetrazione degli elementi, “una trasparenza tra interno ed esterno, tra un ambiente e l’altro, tra ombra e luce”. Possiamo notare come questa trasparenza tra interno ed esterno sia applicabile a tutti i livelli nelle immagini di Tetsuo, ma anche in altri luoghi del cinema giapponese. Il meccano-città e la bomba sono la minaccia esterna e interna, a Tetsuo come a Eva. L’occhio di Tsukamoto è esterno (direzione artistica) e interno (attore) alle immagini. Ma c’è una trasparenza ancora più profonda. E forse ha a che fare con la formazione teatrale del regista. I luoghi del film, porzioni di tessuto urbano, la cui scenografia è curata sempre da Tsukamoto, non essendo mai inseriti in un totale, significano spazi assoluti, territori privi di segno (orizzontalità, linearità) eppure dall’identità forte, che inscenano la trasparenza profonda tra interno ed esterno. In questi territori si cercano le tracce del sogno e della memoria.

In Haze (2005) troviamo l’estrema applicazione di questa trasparenza. Un uomo si ritrova in un luogo chiuso e stretto, senza sapere come e perché è finito lì. Non può alzarsi, può solo strisciare. Non sa se si trova là dentro per via di una guerra, o per l’opera di un ricco pervertito. È ferito. Il luogo-prigione impedisce o forza il movimento. In fondo a un cunicolo l’uomo intravede qualcosa. Non è il solo a essere stato imprigionato là sotto. Ci sono altri corpi, mutilati. C’è una donna che come lui sta soffrendo e come lui ha dimenticato. Insieme cercano una via d’uscita che può voler dire recuperare la memoria e capire cosa è successo. Qui, la prigione coincide con l’oblio. Il personaggio interpretato da Tsukamoto sa che l’unico modo per salvarsi è ricordare, per quanto doloroso sia. In Haze il corpo è la mappa che deve recuperare il territorio. Da questo punto di vista, l’orrenda visione (parziale) dei corpi mutilati coincide con l’immagine di una lacerazione insanabile, il ricordo di una tragedia che non può essere nominata né rappresentata.
Trasformiamo il mondo in una massa d’acciaio/ facciamolo arrugginire tutto, così che si sbricioli nel cosmo/ facciamo ardere la terra con il nostro amore, dice il metal fetishist a Tetsuo. In un mondo incredibilmente analogico, in una colpevole proliferazione di automi che dimenticano, l’uomo tsukamotiano vuole sopravvivere e ricordare, vuole sentire, vuole amare. Spesso le figure femminili rappresentano un enigmatico bagliore di luce, una speranza. Il personaggio di Kei Fujiwara crede nell’umanità nascosta dietro il metallo di Tetsuo, vuole dimostrargli il suo amore. Nelle Avventure del ragazzo del palo elettrico la donna è sì Eva, organismo materno e omicida, ma è anche Momo Sariba, la professoressa che spinge Hikari ad accendere la luce per salvare l’umanità. Più volte scorgiamo volti femminili indagati da una luce calda, sfumata, disegnata come un ricordo d’infanzia. Prima della deflagrazione, della putrescenza metallica, della corruzione urbana.

Tsukamoto insegue quel ricordo, quel sentire che appare lontano dalla società moderna. Rinko Tatsumi, il personaggio interpretato da Asuka Kurosawa in Rokugatsu no hebi (Un serpente di Giugno/ A Snake of June, 2002) lavora in un centro di assistenza sociale e aiuta al telefono persone depresse, che minacciano di farla finita. È sposata con Shigehiko, un uomo più vecchio di lei: una relazione divenuta nel tempo fredda, ripetitiva e vuota. Un giorno riceve un pacco su cui è scritto “i segreti di tuo marito”. Dentro ci sono le foto di lei, nascosta in un angolo della città, che si masturba. L’autore delle foto, lo stesso uomo che ha chiamato Rinko dicendole di essere malato di cancro e di voler morire, la ricatta, offrendole i negativi in cambio di alcune prestazioni da lui stesso guidate (e dirette) al telefono. Rinko è costretta a recarsi in luoghi pubblici e a ripetere la masturbazione, violentando il suo corpo ma allo stesso tempo risvegliandolo. Il marito si accorge della situazione, e decide di seguire di nascosto Rinko. Nel finale, la ritrova in un parcheggio, nuda sotto la pioggia, che offre la visione del suo corpo a un occhio nascosto. Si forma un triangolo il cui vertice alto è il corpo di Rinko. Agli altri due angoli, l’uomo nella macchina, intento a scattare fotografie, e il marito, travolto e sconvolto dall’erotismo sprigionato dal corpo della moglie. La macchina fotografica, elemento centrale nel film insieme al corpo femminile, diviene tessuto connettivo di natura fallica (all’angolo opposto del triangolo, il marito di Rinko si infila la mano nei pantaloni e comincia a masturbarsi). Nella pioggia inarrestabile, calda e umida, i personaggi ritrovano il sentire del proprio corpo. Rinko e Shigehiko ritrovano l’amplesso e l’unione. In Rogukatsu no hebi, Shin’ya Tsukamoto interpreta Iguchi, il malato terminale che scatta di nascosto le foto a Rinko e ne dirige al telefono i movimenti. L’occhio fuori campo, qui, si connette a quello in campo, prolungandosi a sua volta nell’obiettivo fotografico: Iguchi è l’alter ego di Tsukamoto regista, mette in scena Rinko. Il corpo di metallo, stavolta, è la macchina fotografica, su cui si imprime il risveglio dell’eros, indissolubilmente legato alla pioggia – liberatoria – di Giugno.

Il corpo rappresenta il territorio d’indagine d’elezione. Nell’osservazione delle più piccole particelle dell’organismo si attua un processo cognitivo di estrema importanza per l’essere umano. Per questo motivo la sua struttura (nelle sue diverse accezioni) è l’elemento cardine del cinema tsukamotiano. È forse in Vital (2004) che Tsukamoto si spinge più in profondo, all’interno del territorio-corpo, alla ricerca di un sogno dimenticato. Di un ricordo vitale. È ancora un incidente automobilistico a innescare la storia (incidente come simulacro di vita e morte, assimilabile a quello perpetuato e – anche qui – organico in Crash di David Cronenberg). Nello scontro con un camion, il giovane Hiroshi Takagi ha perso conoscenza. Quando si risveglia, non ricorda più nulla, e non sa che la sua fidanzata, Ryôko Ooyama, è morta nello stesso incidente. La ricostruzione della memoria avviene attraverso una lunga e simbolica autopsia (Hiroshi è studente di medicina e segue un corso semestrale di anatomia). Il corpo che Hiroshi deve analizzare è proprio quello di Ryôko. Hiroshi subisce (e proietta al contempo) sogni e immagini della vita passata con lei, mentre le sue mani indagano gli organi della ragazza e li disegnano con precisione su carta. Nello sguardo assente/trasparente – e ostinato – di Hiroshi vive la ricerca dei ricordi, dei sentimenti pre-oblio. Nel territorio-corpo le mani cercano i segni del sentire, fino al momento in cui la memoria ritrova la luce. Il ricordo (e il sogno), allora, è un’immagine/suono staccata, un corpo a sé che fluttua nello spazio della mente, il respiro di una danza in riva al mare o uno sguardo in profondità dentro a un bosco, e colpisce per la sua incontrastabile potenza. Il ricordo/immagine arde il mondo con il suo amore.

 

BIOGRAFIA

Shin’ya Tsukamoto nasce a Tokio, nel 1960. A quattordici anni riceve in regalo dal padre una videocamera Super8 con la quale gira i suoi primi cortometraggi. Durante gli studi al Dipartimento di Belle Arti dell’Università di Nihon, si interessa al teatro e fonda la compagnia del Kaijyu Theater (Teatro dei Mostri Marini), con la quale produce due spettacoli e comincia a lavorare ai suoi progetti cinematografici. Nel 1988 realizza Tetsuo I: The Iron Man, film che lo pone all’attenzione del pubblico e della critica internazionale e a cui seguiranno Tetsuo II: Body Hammer nel 1992 e Tetsuo: The Bullet Man nel 2009. Nel 1997 è membro della Giuria alla Mostra del Cinema di Venezia, anno in cui viene premiato Hana-bi (Fiori di fuoco), del connazionale Takeshi Kitano. Tsukamoto, in qualità di attore, lavora in molte pellicole giapponesi e collabora con autori come Miike Takashi. Nel 2011, sempre alla Mostra del Cinema di Venezia, vince il Premio della Sezione Orizzonti con il film Kotoko.

© CultFrame 01/2011

 

FILMOGRAFIA
1986: Futsu saizu no kaijn (The Phantom of the Regular Size)
1987: Denchu Kozo no boken (Le avventure del ragazzo del palo elettrico)
1988: Tetsuo – The Iron Man (Tetsuo – l’uomo d’acciaio)
1990: Hiruko – Yokai hanta (Hiruko, the Goblin)
1992: Tetsuo II – Body Hammer
1995: Tokio ken (Tokio Fist)
1998: Bullet Ballet
1999: Sôseiji (Gemelli/ Gemini)
2002: Rokugatsu no hebi (Un serpente di Giugno/ A Snake of June)
2004: Vital
2005: Haze
2008: Nightmare Detective
2009: Tetsuo III Bullet Man
2011: Kotoko

LINK
CULTFRAME. Tetsuo. The Bullet Man. Un film di Shinya Tsukamoto. 66° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Concorso
CULTFRAME. La mutazione infinita di Tetsuo il fantasma di ferro. Cofanetto Shinya Tsukamoto
CULTFRAME. L’immagine e il desiderio. A Snake of June. L’ultimo lungometraggio di Shinya Tsukamoto

IMMAGINI
1 Frame del film Tetsuo – The Iron Man
2 Frame del film Tetsuo – III Bullet Man
3 Frame del film Haze
4 Frame del film A Snake of June
5 Shinya Tsukamoto

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