Avevo già affrontato la questione World Press Photo lo scorso anno e in sostanza non avrei molto da aggiungere in relazione al premio fotografico più pompato nell’ambito del panorama mediatico internazionale. Le questioni sono sempre le stesse (e molto serie) e potrebbero essere sintetizzate giornalisticamente in una semplice frase: il World Press Photo è una fabbrica di stereotipi fotografici che serve solo ad alimentare uno star-system fine a se stesso. Aggiungo che, nella grande maggioranza dei casi, si tratta di fotografia commerciale che alimenta luoghi comuni macroscopici che possono essere replicati molto facilmente. Ormai tutti sanno cosa e come bisogna fotografare per poter ambire a questo premio. Ma a parte ciò, quest’anno è avvenuto qualcosa di decisamente grottesco. Come direbbe Totò: “ogni limite ha una pazienza”.
Nel caso del World Press Photo del 2012 questa celeberrima frase del grande artista napoletano va presa non solo come un sottile gioco di parole ma anche come un’affermazione che può descrivere perfettamente lo stato d’animo di chi, addetto ai lavori o semplice appassionato, legge su testate giornalistiche nazionali affermazioni a dir poco inappropriate riguardo l’opera vincitrice dell’edizione del 2012 (scattata da Samuel Aranda in un ospedale di campo a Sana’a – Yemen).
Ebbene, l’immagine non contiene alcun elemento di eccezionalità, anzi appare fin troppo ovvia nella sua composizione e nel messaggio che intende veicolare. Ma fino a qui nulla di terribile e di insopportabile; si tratta di una fotografia come se ne vedono in continuazione sugli organi di informazione che trattano determinate tematiche.
Ma quando si legge sul Corriere della Sera di domenica 12 febbraio 2012 (pag. 33) la frase che fra poco vi riproporrò non si può che rimanere basiti. Eccola: “Ci sono tutte le caratteristiche della Pietà michelangiolesca nella fotografia dello spagnolo Samuele Aranda che ha vinto il World Press Photo…”
Sinceramente, mi domando come si possa scrivere una cosa del genere in modo così superficiale. Perché aggiungere questo pesante e sproporzionato carico culturale a un’immagine che certamente non è stata scattata inseguendo uno spirito michelangiolesco ma solo, semplicemente, per informare?
Affibbiare etichette senza senso a una fotografia non fa, a mio avviso, neanche il bene del fotografo che l’ha scattata.
Perché spingere mediaticamente quest’opera con affermazioni roboanti e fuori luogo? Perché utilizzare queste “formule” che mirano più all’ “effetto speciale” giornalistico che alla sostanza dell’immagine?
Dire e scrivere certe cose trasporta il discorso sulla fotografia vincitrice del World Press Photo su un piano che non le appartiene per niente e fa diventare inutile ogni discussione in merito. Ma d’altra parte un premio così magnificato e sopravvalutato non può che generare giudizi giornalistici iperbolici. Il parallelo cinematografico che ho già fatto (nell’articolo dello scorso anno: World Press Photo? No, grazie) con il Premio Oscar è a mio avviso ancora valido. Così come “certo cinema” premia ed esalta se stesso (con l’appoggio di parte della stampa) tramite gli Oscar, “certa fotografia” premia ed esalta se stessa (con l’appoggio di parte della stampa) con il World Press Photo.
Passano gli anni ma nulla cambia. Aveva proprio ragione Totò: “ogni limite ha una pazienza”.
© CultFrame – Punto di Svista 12/2012
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