Quale reale spazio di azione ha il fotografo che intende concentrarsi senza condizionamenti dentro il labirinto dell’atto di fabbricazione artistica? A sentire determinati puristi della fotografia, pochissimi; ma se si oltrepassano i limiti dei confini (inesistenti) tra le arti visive e se si fa riferimento a una concezione della lingua visuale densa di strati, e attraversata da innumerevoli possibilità ed esperienze, le articolazioni creative possono diventare praticamente infinite.
Ancor di più. Se la fotografia riesce a cogliere dal dispositivo cinematografico il concetto di riorganizzazione immaginifica del mondo, di copia della realtà (più vera della realtà stessa proprio perchè falsa) può abbattere quei muri che impediscono a molti di far germogliare poetiche e impostazioni stilistiche capaci di far emergere innovazioni e visioni destabilizzanti. Ciò è in parte già avvenuto, non tanto per il consolidamento della tecnologia digitale, quanto piuttosto per l’esigenza di taluni artisti di percorrere sentieri caratterizzati da un salutare meticciato espressivo in grado di andare oltre regole e codici.
Uno dei casi più interessanti è quello dell’italiano Paolo Ventura, il quale ha recentemente svolto una lecture a Roma, presso il MACRO (nell’ambito di Incontri di Fotografia, a cura di Marco Delogu).
L’autore milanese è artefice di un’architettura visiva che ricolloca il concetto del fare fotografia all’interno di un ben più ampio universo visionario che (consciamente o inconsciamente, non importa) è contraddistinto da innumerevoli influenze, sia di carattere pittorico che cinematografico.
Ma entriamo in profondità nel procedimento di costruzione dell’opera attuato da Ventura. L’artista scrive e disegna la sua storia (come fosse uno storyboard), ed elabora dunque una sorta di struttura drammaturgica che rappresenta il tessuto di una poetica che ha evidenti radici nella questione della memoria. Questa prima fase precede quella dell’elaborazione manuale del set, un set che comprime il mondo, costringendo tutti i suoi segni dentro uno spazio quasi concentrazionario (un microcosmo fedele ai luoghi ma straniante), all’interno del quale posiziona oggetti e figure umane che si manifestano come apparizioni, simulacri del reale bloccati nella loro essenza, quest’ultima tutta basata sull’attualizzazione filosofica del passato. Pseudo individui che appaiono collocati in pseudo luoghi, e che sembrano compiere azioni giornaliere, evocano la meccanica dei comportamenti individuali, la loro ripetitività e il loro oggettivo non senso. Corpi rigidi senza direzione, impiantanti nello spazio come fossero cose. L’assenza di una vacua connotazione psicologica e il distacco dal gigantesco equivoco dell’emozione costringono chi guarda a una fruizione algidamente dolorosa.
Questa meccanicità è manifestata perfettamente nel suo lavoro The Automaton, nel quale Ventura evidenzia il suo, neanche tanto sotterraneo, legame con un elemento che ha attraversato la storia del cinema in lungo e in largo, dall’espressionismo, passando per Fritz Lang, fino al recente Hugo Cabret di Martin Scorsese: la metafora dell’automa, appunto. Non sono estranee a The Automaton incongruenze di stampo surrealista e atmosfere inquietanti di una falsa Venezia più vera, nella sua connotazione onirica, di quella reale devastata dal turismo e dal consumismo.
In Behind the Walls si percepiscono aspetti visuali che inevitabilmente fanno correre il pensiero al noir francese e al realismo poetico (sempre francese), tra Renoir e Carné. Ma emergono anche incubi lynchiani e un rigore dell’immagine, spesso incentrata sulla sottrazione e sulla marmorizzazione delle azioni, che tira in ballo l’algore filosofico di Robert Bresson.
Ma a parte la correlazione con il linguaggio cinematografico, è doveroso porre l’attenzione anche sulle caratteristiche fotografiche dell’opera di Paolo Ventura. La sostanza del suo universo visivo non si esaurisce certo nel prevedibile concetto di verosimiglianza della rappresentazione. Sono significative, in tal senso, le diverse scelte delle inquadrature che alludono a punti di vista mai convenzionali (si avverte in alcuni casi quasi l’intervento di un’istanza narrante che si sovrappone allo sguardo dell’autore) e che in alcune occasioni tendono a “escludere” piuttosto che a “includere”, come nel caso dell’immagine dell’uomo impiccato collocata nel mosaico di Winter Stories. Il fuori campo (come nel cinema) appare quindi fondamentale esattamente come ciò che è in campo.
Alla luce di quanto abbiamo scritto, è possibile affermare come il fare fotografia nella concezione di Paolo Ventura non si limiti al doppio atto del guardare e dello scattare. Il procedimento è decisamente più complesso. Passa dal ricordo (dimensione del passato), alla memoria (attualizzazione del passato nel presente), dalla ricostruzione disegnata alla strutturazione drammaturgica (cioè dal segno al racconto), dalla rielaborazione artigianale all’atto fotografico in sé.
Ebbene, tale percorso fa divenire l’opera finale il punto di arrivo di una strategia creativa che arricchisce immensamente il concetto stesso di fotografia. La realtà ricordata, immaginata, ricostruita, fotografata diviene così un precipitato delle azioni umane, queste ultime bloccate nella loro rigida e sterile ovvietà e collocate in spazi senza respiro e forse senza speranza.
© CultFrame 03/2012
IMMAGINI
1 Paolo Ventura. Behind the Walls
2 Paola Ventura. The Automaton
3 Paolo Ventura. War Souvenir
Incontri di fotografia: Paolo Ventura
martedì 20 marzo 2012
MACRO – Museo d’Arte Contemporanea Roma / Via Nizza 138, Roma