Dopo l’evento dedicato a William Kentridge, dislocato in differenti sedi della città, Milano ospita un’altra retrospettiva di grande richiamo. Si tratta del progetto Marina Abramović Method, che vede l’artista di origine serba, considerata la madre della performance e Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1997, impegnata in un serie di eventi: una proiezione del documentario The artist is Present, diretto da Matthew Akers, vincitore del Panorama Audience Award al 62°Festival del Cinema di Berlino, una antologica al PAC, una mostra collaterale da Lia Rumma e un lectio con performance al Teatro dal Verme. Un corpus di opere poderoso, che sembra tradire una voglia certamente cresciuta con gli anni di aprirsi al pubblico, renderlo partecipe dell’esperienza artistica, anche attraverso una generosa attività di spiegazione.
Marina Abramović è ormai una superstar dell’arte internazionale, protagonista di un successo lento ma inarrestabile realizzato in decenni di costante attività, una parabola giunta all’apice con la straordinaria – in questo caso l’aggettivo è quantomai doveroso – retrospettiva che le ha dedicato il Moma di New York nel 2010. Uno dei rarissimi casi in cui la performance ha trovato dischiuse le porte di una cattedrale dell’arte, disciplina recalcitrante e restia com’è ad essere incasellata in spazi museali.
Proprio la retrospettiva al Moma è al centro del documentario girato da Akers, nel quale il regista segue passo passo la produzione, la preparazione e la realizzazione della più lunga performance mai realizzata da Abramović, cuore dell’antologica al Moma. La mostra fu concepita come una selezione di performance storiche dell’artista, per l’occasione reinterpretate da giovani performer, come la celebre Imponderabilia (1977), azione realizzata con il compagno di vita e artista Ulay, nella quale i due occupavano il vano di ingresso di un museo, nudi, in piedi l’uno di fronte all’altro, costringendo gli spettatori a passare tra i loro corpi.
Al centro del progetto del Moma l’azione durata tre mesi, durante i quali Abramović è stata seduta ogni giorno, per sette ore, immobile, in silenzio, dedicandosi a osservare i visitatori che, a turno, sceglievano di sedersi di fronte a lei e accogliere questo sguardo. Inutile dire che la descrizione dell’azione non restituisce il pathos e la forza di quella che forse è l’opera assoluta di Abramović e che, se non è più possibile sperimentare in prima persona, merita quantomeno di essere vissuta attraverso la macchina da presa di Akers, che ha il merito di saper restituire fedelmente l’intensità raggiunta dall’artista alla ricerca di un contatto profondo con il pubblico.
Il film inoltre rivela un lato forse meno evidente della pratica di Marina Abramović, che certo ha a che fare con temi assoluti come la morte, la violenza, la vita, l’essere nel tempo, pescando da un serbatoio di ritualità antica e archetipi collettivi, ma non di meno possiede anche un risvolto divistico piuttosto interessante. Il ritratto che ne emerge è quello di un’artista che sceglie di essere totalmente nella sua opera, rendendo labili i confini tra la vita privata e il pensare artistico, senza disprezzare la fama e l’idolatria dei fan, aspetto questo che la accomuna forse più a una pop star che a un’artista visiva. Ripercorrendo la vicenda storica della performance, non bisogna scordarsi il lavoro prodromico sulla body art della francese Gina Pane, che già negli anni ’60 si esibiva in performance che sconvolgevano il pubblico dell’arte, allora ancora poco avvezzo alla sparizione del manufatto e all’idea di un’arte effimera, diretta, inafferrabile; oppure Joan Jonas, americana, che si dedica anch’essa da decenni al lavoro sul corpo-teatro e sulla danza, o ancora Valie Export e Yoko Ono. Nessuna di queste figure di riferimento però è riuscita a divulgare la performance, a raggiungere il grado di visibilità e di penetrazione nella cultura mainstream di Abramović, che da questo punto di vista è uno dei casi più rilevanti di sovraesposizione mediatica dell’arte contemporanea.
Tornando al progetto, Abramović in prima persona attende i visitatori al PAC, dove è allestita un’azione che il pubblico può scegliere di fruire da spettatore o da performer. Questi ultimi vengono accolti dalle assistenti dell’artista e condotti attraverso un training di rilassamento e concentrazione, necessario a prepararsi alla performance vera e propria, della durata di un’ora e mezza. A turno, i soggetti dovranno sedersi su degli scranni, sdraiarsi su dei letti sotto i quali sono posti dei cristalli e stare in piedi, immobili, sotto delle gabbie metalliche sopra le quali sono incastonati dei magneti. Ognuno di loro indossa delle cuffie che isolano dal rumore, e sono tenuti a mantenere il più rigoroso silenzio. Gli spettatori, dietro una linea bianca, assistono allo svolgersi dell’evento, osservando gli attori. Il tentativo messo in atto dall’artista è duplice: condurre i protagonisti dell’azione a esperire un momento di presente assoluto, svuotando la mente e facendo un’esperienza che assomiglia molto alla pratica meditativa. Gli spettatori invece si trovano a percepire con forza la responsabilità dello sguardo sull’altro, che si percepisce a tratti impudico, anche grazie all’idea di mettere a disposizione di chi guarda binocoli e cannocchiali da ornitologo, che permettono di scrutare gli attori sin nelle micro espressioni, nelle più minime reazioni. La ricerca del movimento nella stasi, un elemento che ritorna costante nelle più recenti produzioni dell’artista, si evince anche dalla selezione di video allestita al piano superiore, dove vengono ripercorse alcune delle tappe fondamentali della sua attività, tra cui il sempre impressionante Cleaning the Mirror, nel quale l’artista nuda è sdraiata supina sotto uno scheletro umano.
Si collega infine idealmente all’evento del PAC il lavoro presentato alla galleria Lia Rumma, intitolato With Eyes Closed I See Happiness, altra azione volta a ragionare sui tempi del tempo e della presenza del sé, una tensione che sembra esprimersi in tutto il lavoro ultimo dell’artista. In questa azione l’artista si pone in relazione specifica con lo spazio della galleria, dove sono installate sculture che riproducono il calco della sua testa e fotografie di grande formato. Torna anche qui l’utilizzo dei cristalli, materiale naturale veicolo di energia, e l’idea di spostare l’indagine sui limiti fisici verso un territorio mentale e spirituale, un territorio aperto a cui far accedere lo spettatore.
Malgrado il “chiasso” che ha accompagnato l’evento, innegabilmente di respiro internazionale e di grande prestigio, colpisce scoprire una forza intatta nel lavoro di Abramović, oggi ancora più centrata rispetto alla propria ricerca. Dismessi i tentativi autolesionisti più clamorosi, orientata verso una pratica relazionale e liberata da alcuni elementi spettacolari che forse appesantivano alcune azioni del passato, Abramović è una artista in piena maturità che sembra avere ancora moltissimo da dare al proprio pubblico. A patto che questi conceda il proprio tempo e il proprio ascolto.
© CultFrame 04/2012
IMMAGINI
1 Marina Abramović. With Eyes Closed I See Happiness
2 Marina Abramović. Cleaning the Mirror. Videostill
INFORMAZIONI
The Abramović Method / a cura di Diego Sileo ed Eugenio Viola
Dal 21 marzo al 10 giugno 2012
PAC – Padiglione di Arte Contemporanea / Via Palestro 14, Milano
With Eyes Closed I See Happiness
Dal 20 marzo al 12 maggio 2012
Galleria LiaRumma / Via Stilicone 19, Milano / Tel. 02.29000101/ info@liarumma.it
Orario: martedì – sabato 11.00 – 13.30 / 14.30-19.00
Marina Abramović. The Artist is Present / regia Matthew Akers / produzione: Show of Force per HBO / distribuzione: GA&A Productions e Feltrinelli
Marina Abramović. The Past, Future and Present of Performance Art / Marina Abramović incontra il pubblico
21 marzo 2012, ore 21.00 – Sala Grande
TEATRO DAL VERME / Via San Giovanni sul Muro 2, Milano – info e acquisto biglietti / Tel: 02.54915
LINK
The Abramović Method
Galleria Lia Rumma, Milano
TEATRO DAL VERME, Milano